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CHIEDIMI SE SONO FELICE e #MTC56 ovvero Biscotti Bestiali per pelosi molto saggi e moderatamente gourmet

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Pina, ma secondo te sei felice?
"Spiegati, che se ti bastano 24 caratteri per incartarti comincio a preoccuparmi."
Era da un po' che volevo affrontare questo argomento con Pina ma ci voleva una giornata con un cielo tanto inquieto, che neppure Caravaggio sarebbe riuscito a dipingere, per trovare una certa lucidità nei pensieri che mi tormentano da qualche tempo.
Si, hai ragione, e che volevo capire il tuo concetto di felicità, felicità animale intendo.
"Ehm, hai aggiunto caratteri ma ti sei incartata uguale. Facciamo così, spiegami cose se fossi un bambino di sette anni. Non dovrebbe essere difficile."
Dai, smettila, sono seria. Cosa vuol dire per un animale essere felice? Noi due facciamo parte della stessa catena alimentare ed io, come homo sapiens sapiens sono stravaccata su tutto il resto del Creato. Certo, da qualche parte c'è anche scritto che è cosa buona e giusta, ma ultimamente sento uno strano malessere, un dolore sordo che mi inquieta più di quanto dovrebbe.
"Sei preoccupata che lo stravaccamento venga meno?" 
No, affatto, non sono preoccupata per me, sono sempre più preoccupata per te, per voi.
"Allora facciamo che cerchi di spiegarti come se io avessi quattro anni, va bene? Ecco, siediti qui vicino a me, facciamo venire anche A-gata, Meggie e Sorcino così vediamo se in quattro riusciamo a capirti. O aiutarti a capirti da sola. Credo sia questo il problema."
Pina ha ragione, sotto le piume ha un cervello da fine pensatore. E sa guardare sempre oltre.
Il tavolo della cucina improvvisamente si riempie di ingredienti e di cibo, una merenda improvvisata, la serenità di un pomeriggio non proprio uggioso ma vivacemente variabile.


Vedete - riprendo, mentre pulisco le animelle della pellicina esterna dopo la cottura nel latte - il discorso è molto semplice. Quello che solo 10 anni fa era considerato un atteggiamento da frichettoni con qualche problema con la macchina del tempo ora è consapevolezza e stile di vita di migliaia di persone. I vegani ci hanno spogliati dalle nostre ipocrisie, posti dinnanzi alle nostre meschine malvagità. Ma quello che non tollero, assolutamente non sopporto, e lo considero un insulto al mio essere tollerante e laica nei confronti di tutto e di tutti, è questa necessità di catechizzare il prossimo, avvelenargli pranzi e cene, costringerlo a prendere una posizione ed alzare barricate, come se già la nostra vita non fosse sprecata nello sforzo di buttare giù muri, fisici ed emozionali.
"Posso riassumere?"interviene Maggie, un'adolescente, all'anagrafe canina, una top-dog, dall'alto della sua algida bellezza teutonica. "Vorresti dire che trovi giuste le premesse etiche abbracciate dai vegani ma che se fossero meno cagacazzi potresti anche seguirli? E quindi  non ti senti abbastanza etica nei nostri confronti?"
Ecco, come sempre ci voleva la pragmaticità tedesca per chiudere il cerchio. 
Si, non riesco a capire se nutrirmi di voi, dopo diecimila anni di evoluzione in questo senso, sia corretto o meno e cosa sarebbe di me, di voi, di noi se improvvisamente tutto cambiasse.
Sorcino mette sul piatto un vinile di Renato, come sempre quando vuole fare un po' di jogging, e si mette a correre con le zampettine sulle tracce, precedendo la puntina. Ogni tanto qualche nota viene accelerata, ma nel complesso non viene meno l'armonia.


A-gata mi sostituisce nell'impastare il composto di farina integrale e mousse di animelle e sulla sfoglia stesa si diverte a lasciare le impronte, preferendo le sue zampette allo stampo da biscotti.
"Allora vorrei rasserenarti in questo."Pina, sale sul tavolo e si accomoda, così da poter guardare tutti negli occhi. Sospira, come compressa da un peso tanto grande, e continua a parlare."Personalmente non mi interessa se dopo la mia morte mi mangerai o meno. Del resto è quello che faranno i vermi con te una volta inscatolata e archiviata in un cimitero. Ed è per questo che hai deciso di donare il tuo corpo alla scienza e poi di farti cremare, per non sprecare ciò che sei quando non sarai più. Quello che invece mi fa male, e sono certa di poter parlare a nome di tutti quelli che in questa stanza appartengono alla mia categoria ma non corrono, non sempre almeno, il rischio di finire brasati o con un limone infilato nel lato b, è la mancanza assoluta di umanità, di sensibilità, di rispetto. Perché devi distruggere il mio mondo e rendere i miei figli, cuccioli di orango, orfani per piantare quelle cazzo di palme così da rendere più morbide quelle altrettanto di merendine che ti ricoprono il fegato di grasso bianco? Perché mi devi allevare in luoghi angusti, costringendomi a nuotare in mezzo ai miei escrementi che poi finiranno sull tuo piatto, mica sul mio! Perché, se vuoi fare di me polpette, mi metti nel frullatore da vivo e non da morto come fanno i vermi con te? E perchè costringi i bambini, il tuo futuro!, a vivere peggio degli scarafaggi per sgusciare milioni di gamberetti? Te ne servono davvero così tanti? Ecco, io le uova te le faccio lo stesso anche se non mi tagli il becco e le ali e magari te le farei molto più buone di come mi costringi a farle. Ma tanto le mangi tu, correggimi se sbaglio. E potrei andare avanti all'infinito in quanto come masochisti non vi batte nessuno in tutto il Creato, neppure il povero marito della Mantide Religiosa."


Vorresti dirmi che non ti interessa se ti mangio da morto ma che vorresti ti facessi vivere meglio da viva?
"Chiamami scema, scusa. Fammi vedere dove hai firmato che vuoi essere trattata bene da morta e meno bene da viva."
Maggie accende il forno ed aiuta A-gata ad infornare la teglia di biscotti mentre Sorcino dopo il jogging cerca di fare un po' di stretching utilizzando l'altezza di una mug.
Quindi non devo chiederti se sei felice. Devo solo domandarmi se lo sono io.
"Già, lo so che non te ne rendi conto, ma tutto questo produrre e distruggere e uccidere renderà infelici molto più voi che noi. Del resto tu sei all'apice della catena alimentare e sta a te capire quando questa catena ti strozzerà."
Guardo Pina negli occhi. - Dovrebbero mandarti all'Onu. -affermo sottovoce, quasi sfiancata dalle sue parole. 
"No - risponde con un sorriso amaro - dovrebbero non far entrare più quelli che sono inchiodati lì dalla notte dei tempi. Ma rilassati, le cose giuste accadranno, perché non avrete scelta. Intimamente sai, anche se ben celato dalla autocondanna ad esser pragmatica fin nel midollo, che il sentimento che ti anima è quello dei figli dei fiori. La sostanziale differenza, rispetto a chi li mette nei cannoni o se li fuma, e che tu li metti nelle insalate. E bello che ognuno si possa stordire a modo suo."


Il passaggio di testimone con Daniela e Juri, ha dato vita alla sfida 56 dell'Mtchallenge che ha nel biscotto il suo motivo di esistere. Durante queste settimane l'incredibile tenerezza di cui sono stata oggetto da parte di Maggie e A-gata mi ha convinta a preparare un biscotto che potesse essere a loro gradito, giusto per ringraziarle in qualche modo della loro paziente e premurosa presenza.
Non è una frolla montata né Massari l'inserirebbe nel suo menù (e quindi sono fuori gara :) ma sono certa che possa essere un primo passo per rispettare i nostri silenziosi compagni pelosi, senza per questo "umanizzarli" troppo. Visto che siamo noi già abbastanza bestiali.

Biscotti Bestiali con animelle, miele di Sulla e olio di semi di canapa

Ingredienti
250 g di Petra 9
100 g di Petra 5
100 g di animelle di bovino
1/2 rametto di rosmarino
1 uovo bio
1/2 carota
30 g di miele di Sulla
30 g di olio di semi di canapa
olio evo
latte intero qb

Preparazione
Lavare bene le animelle e lasciarle riposare coperte di latte e con il rosmarino per 4 ore, in contenitore di vetro.
Trasferire il latte con la carota in un pentolino, portarlo a bollore, allontanare dal fuoco, inserire le animelle e lasciarle immerse per 10’.
Toglierle dal latte, eliminare la pellicina che le ricopre, frullarle con la carota e i rami di rosmarino fino ad ottenere una mousse, coprire ed abbattere.
In una ciotola unire le due farine, l’uovo, la mousse di animelle e carota, il miele e l’olio a filo fino ad ottenere un composto un po' più consistente della frolla.
Accendere il forno a 185°, statico.
Stendere l’impasto dell’altezza di mezzo centimetro e con il coppapasta o lo stampino desiderato tagliare i biscotti, adagiarli sopra una teglia coperta da silpat o carta forno e cuocere per 20’ o fino a doratura.
Sfornare, abbattere e servire.
Si conservano in un contenitore metallico per 15 giorni.

E sono così buoni che vi toccherà adottare un peloso ;)





Golosessi veneziani ed i biscotti dimenticati: i Bigarani

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Prima che l'industria dolciaria banalizzasse il godere di un biscotto invadendo il mercato di dolcetti di tutte le forme e dai molteplici natali, le "parone de casa" veneziane preparavano con le proprie mani i biscottini da conservare in credenza e da offrire agli ospiti ed ai bambini in ogni momento della giornata.

Venezia, capitale dei traffici orientali, aveva importato con le spezie quel famoso zucchero di canna che incuriosiva le popolazioni abituate a dolcificare i cibi quasi esclusivamente con il miele o la melassa. La sua origine lo avvolgeva di quel mistero che ogni mercanzia proveniente dall'Oriente si portava dietro con i racconti di ogni marinaio su usi e tradizioni pieni di fascino di quei popoli lontani.
Lo zucchero di canna era arrivato a Venezia almeno dopo il Mille, in seguito alle Crociate che avevano dissolto il torpore medioevale seguito al vuoto di potere lasciato dalla caduta dell'impero bizantino.

A fianco dei dolci rituali e comuni ad ogni paese come la pinza o il maccafame, iniziarono a caratterizzarsi dolci soffici come le brassadele e il nadalin di Verona, il bisso e il bisso moro di Padova, la polentina di Cittadella (diventata famosa dopo una querelle tra pasticceri in un contest televisivo di pasticceri), la treccia di Thiene e tutti insieme venivano offerti con i golosessi, piccole e golose tentazioni da credenza, come i bianchetti, i bigarani, i pevarini, i forti, i bussolai di Burano, i zaeti  resi preziosi dall'oro della farina di mais e dalla presenza di uvetta e pinoli, gli ossi da morto, gli amaretti, fino ai famosissimi baicoli, che venivano offerti con un caffè, un Vin di Cipro o con il più corroborante zabaione. Ancor oggi, nella scatola di latta con la quale la Colussi li mette in commercio c'è scritto "No gh'è a sto mondo no più bel biscoto/più fin, più dolce, più lisiero e san/par mogiar nella cicara e nel goto/del Baicolo nostro venezian."


Ma a fianco di biscotti blasonati e universalmente conosciuti esistono anche quelli meno noti, quasi scomparsi, come i bigarani o i pandoli, questi ultimi tradizionali di Schio, nel vicentino, che ricordano i primi l'organo sessuale femminile (con il termine biga si indica la vulva) ed i secondi, di forma fallica, appunto quello maschile.
Si tratta di dolcetti che hanno come base la pasta lievitata di pane, impastata preferibilmente con il latte invece che con acqua, dopo dolci, lavorati a ciambellina, cotti  e successivamente ricotti così che la croccantezza ottenuta fosse anche garanzia di lunga conservazione nel tempo.

Nel Veneto per pandolo si intende anche una persona allampanata, alta e un po' scoordinata nei movimenti, un tontolone insomma. Giovanni Capnist nel suo libro "i dolci del Veneto" racconta di questi dolcini e anche perché furono battezzati in modo così irriverente: la loro forma allungata e la loro consistenza leggera fanno si che una volta intinti nel vino o nel latte assorbono il liquido così velocemente da piegarsi immediatamente in due, rendendo goffa anche la degustazione!


Vi lascio la ricetta di Pino Agostini e Alvise Zorzi (modificata nella quantità di latte e di lievito) e se per caso avete amiche che hanno appena partorito potreste confezionali con le vostre mani e portarglieli in dono con una buona bottiglia di passito, come si faceva una volta, così da consentire alla puerpera di recuperare più velocemente le forze. Se invece foste dalle parti di Schio c'è un panificio, Perin, che li prepara ancora e che ha ricevuto la ricetta dalla famiglia Cadauro. 

Bigarani

Ingredienti
500 g di Petra 5 o buona farina 00
7 g di lievito di birra secco
100 ml di latte 
100 g di zucchero
100 gr di burro
3 uova bio
un pizzico di sale 

Preparazione
In una ciotola sbattere le uova (mettendo da parte un albume) con il sale e sciogliere il burro per pochi secondi a microonde.
Nella planetaria unire la farina con il lievito di birra e lo zucchero e con la frusta a gancio in movimento unire le uova, il burro ed infine in latte a filo, fino ad ottenere un impasto morbido ma compatto. Far lievitare per almeno 3 ore coperto con un panno in un luogo tiepido oppure nell'abbattitore a 26°.
Riprendere l'impasto e dividerla in filoncini della lunghezza di circa 20 cm e 2 cm di diametro, piegarli a metà ed arrotolarli su sé stessi e disporli sopra una placca da forno, coperta da carta andiaderente o foglio di silpat, distanziati fra loro.
Cuocerli nel forno statico a 150° per 15', sfornare, spennellare la superficie con l'albume appena sbattuto e lasciarli asciugare per un'intera notte.
Il mattino successivo cuocerli nuovamente per 15'-20' nel forno statico a 150°, controllando che non si dorino eccessivamente.
Sono leggerissimi e molto friabili e si conservano croccanti fino ad una settimana in una scatola di latta.

Si possono preparare anche i bigarani mori introducendo nell'impasto 50-60 g di cioccolato fondente grattugiato oppure la stessa quantità di mandorle tostate e tritate.


Al via il IV appuntamento con "LA VIA DELLA LANA": dal 7 al 16 maggio il tema ARDITE TRAME sarà un focus sull'importanza di fare rete

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Si terrà per due fine settimana, nei giorni 7, 8 e 14, 15 e 16 maggio 2016, la quarta edizione de La Via della Lana, la rassegna eventi sulla cultura della Lana che si svolge negli spazi dello storico Lanificio Paoletti di Follina (TV). La manifestazione accende da quattro anni l’attenzione sui percorsi di senso legati alla lavorazione laniera, riscoprendo dinamiche di recupero e condivisione dei valori legati alla tradizione e creando nuovi significati attraverso la contaminazione con aree progettuali contigue al textile design. Il tema della quarta edizione, Ardite Trame, mette l’accento di sulla necessità di fare rete, di mettere a fattor comune esperienze, risorse e competenze per lanciare un percorso di innovazione dell’industria, del territorio e della sua comunità.

Sabato 7 maggio sarà la giornata di inaugurazione della manifestazione, al via con la presentazionedella nuova rete Venice Textile Manufacturers, un progetto di condivisione imprendito­riale per creare valore d’impresa attraverso la cultura, con la partecipazione di Unindustria Treviso, Serica 1870, Maglificio Giordano’s, Manifatture Tessili di Vittorio Veneto, Tessitura Bevilacqua di Venezia e Lanificio Paoletti. Segue nel pomeriggio la presentazione di tutti i progetti della quarta edizione: 100% Over Wool, con cinque brand emergenti del territorio che hanno interpretato il campionario Primavera Estate 2017 del Lanificio Paoletti realizzando una capsule collection dedicata; Botteghe Temporanee, il temporary shop giunto alla seconda edizione e che coinvolge 19 designer per ripensare gli scarti di lavorazio­ne della lana; l’arte e le installazioni tessili saranno invece le protagoniste di Transiti, il percorso artistico dedicato alla fiber art che si sviluppa attraverso le aree produttive del lanificio; continua infine il lavoro di riscoperta dell’archivio storico del Lanificio Paoletti, con un focus sulle Raccolte Tessili dagli Anni Venti.
Domenica 8 maggio verranno approfondite le tematiche dei progetti della quarta edizione attraverso incontri e riflessione pubbliche. La mattina Storie di Design e di autoproduzione, conAnnaclara Zambon, curatrice del progetto Botteghe Temporanee; Ivano Vianello, architetto; Laura Fiaschi e Gabriele Pardi – Gumdesign; Antonella Maione e Mauro Cazzaro - Kanz Architetti. Nel pomeriggio due incontri: Nuove stagioni della progettazione tessile e moda dove i 5 brand del progetto “100% Over Wool” - Alfa Perro, Altrove, D’Alpaos, Liliana Milani e Alessio Zinato - si presentano e si confrontano in dialogo con Alberto Damian; Textile Design e Fiber Art: percorsi a confronto è invece l’incontro concon Elda Danese, docente dell’Università IUAV Venezia, e con Stefano Pillon, curatore di “Transiti”.
Il secondo fine settimana della manifestazione ha inizio sabato 14 maggio con la tavola rotonda Lana delle Dolomiti: un futuro sostenibile è possibile, un progetto territoriale nato nel 2014 con l’obiettivo di recuperare le lavorazioni tessili artigianali e valorizzare le lane locali in un’ottica di filiera corta e riscoperta del materiale, con la partecipazione dei rappresentanti di Centro Consorzi Sedico, Istituto Agrario A. Della Lucia di Feltre, Cooperativa Fardjma, Associazione per la Promozione e la tutela della Pecora Brogna, Pecora di Foza, Associazione Fea di Lamon, Unione Montana Alpago e le neonate start-up Lana e Dintorni e I lavori di Penelope, intervengono inoltre Danilo Gasparini ed Emilio Pastore. Con l’occasione Lanificio Paoletti presenta il concorso internazionale per la valorizzazione della cultura della lana dell’Alpago e della sua lavorazione sostenibile. Nel pomeriggio Dal baco al drappo: la seta veneta tra passato e futuro, incontro di approfondimento storico e antropologico a cura di Danilo Gasparini con Edoardo Demo, docente di Storia Economica dell’Università di Verona, Enrico Baldazzi di Serica 1870 ed Andrea Paoletti.

Domenica 15 maggiosi potrà assistere a Momenti bucolici in lanificio, con la tosatura delle pecore dell’Alpago e dimostrazioni dal vivo di filatura e lavorazioni a maglia con il gruppo Percorso Vecchi Mestieri dell’Alpago. Nel pomeriggio Itinerari, lapresentazione delle nuove realtà locali per la valorizzazione del patrimonio territoriale che promuovono forme alternative di turismo attivo per famiglie: Italy ProCycling, Una Montagna di Sentieri, Veneto Kids e NaturalMente Guide. Torna il Cinema in Lanificio con la proiezione del film Transumanza del 2015, un viaggio iniziatico, percorso rigorosamente a piedi, alla ricerca del senso contemporaneo di un gesto, il transumare, che appartiene all’uomo e all’animale da sempre;sarà presente il regista Roberto Zazzara presentato da Danilo Gasparini.

Lunedì 16 maggioè la giornata dedicata ai più piccoli con spettacoli di giocoloria, laboratori di tinte naturali e performance di danza tessile. In chiusura della manifestazione il concerto della banda di Follina.

Andrea, Paolo e Marco e Paoletti
Per tutta la durata della manifestazione sarà possibile partecipare ai Percorsi Sensoriali: visite guidate agli spazi del lanificio e presso l’Osteria del Tessitore si potranno sperimentare degustazioni, musica e intrattenimenti. Inoltre Emporio coperte, il magazzino di accessori classici di produzione del Lanificio Paoletti riaperto e riscoperto per l’occasione. Tanto di Cappello espone le esperienze curriculari degli alunni l Liceo Artistico “Bruno Munari” di Vittorio Veneto, e infine S-coperta, il laboratorio di crochet collettivo in collaborazione con il circolo Il Cuore a Colori di Brugnera (PN) a cui sarà possibile partecipare entrambe le domeniche della rassegna.
LA VIA DELLA LANA
Rassegna Eventi sulla Cultura della Lana
IV Edizione, 
ARDITE TRAME
Sabato 7, Domenica 8, Sabato 14, Domenica 15, Lunedì 16 Maggio 2016
LANIFICIO PAOLETTI, Via Cartiera 2, Follina (TV)


Per ulteriori approfondimenti il programma completo de La Via della Lana è online: www.laviadellalana.it.

Aperitivo letterario: "Sesso, droghe e macarons" di Roberta Deiana a Venezia il 12 maggio e a Villorba (TV) il 13 maggio

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Per anni, Nives Frigo e il suo programma di cucina francese e buone maniere hanno riscosso grande successo sulla rete nazionale TVB. Con il suo charme sobrio, fatto di algida raffinatezza e toni pastello, la trentaduenne conduttrice si è imposta come modello di classe e perfezione: mai una sbavatura, mai una caduta di stile − una vera e propria guru per il suo stuolo fedele di ammiratrici. Tuttavia, giunti alla quinta edizione, gli ascolti di Eleganza in cucina sono in caduta libera. Bisogna subito correre ai ripari; altrimenti, si rischia di chiudere.
Per risollevare le sorti della trasmissione, il produttore si inventa un’idea a dir poco estrema: Nives sarà affiancata dalla pornostar americana Dorothy Corridoio. Il format è semplice: Nives l’esperta e Dorothy l’inesperta (in cucina, si intende); la prima che insegna alla seconda alcuni classici della pasticceria francese, la seconda che fa domande da principiante, impara, esegue, assaggia entusiasta.

Roberta Deiana, cagliaritana di nascita e milanese di adozione, food stylist e autrice di cucina, dopo il successo di "Piccolo ricettario per cuochi perdigiorno", riprende la penna e ci offre "Sesso, droghe e macarons" un romanzo  che diventa un pretesto per esplorare i nuovi linguaggi che i media utilizzano per parlare di "cucina".

La tappa veneta della presentazione del libro prevede ben due aperitivi letterari: il 12 maggio a Venezia, alle 18.30, nella spendida cornice dell'Hotel Ca Nigra Lagoon Resort, si terrà un divertente aperitivo con reading . 
Assieme all'autrice presenterà il libro l'esperta di immagine e style strategist veneziana Anna Turcato. (prenotazione obbligatoria al numero 366 6556359 o via mail a peccatidigioia@gmail.com)

Il 13 maggio a Villorba (TV), alle 19.30, presso la libreria Lovat, si terrà un secondo aperitivo con reading. Assieme all'autrice presenterà il libro la food&wine reporter Michela Pierallini (ingresso libero).

Vi aspettiamo!

Il confetto, da duemila anni un abito dolce che racchiude la storia, la geografia e la cultura del cibo. E non solo

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Per il calendario del cibo italiano, nella settimana dedicata alla Mandorla a cura dell'ambasciatrice Flavia Silipigni Galasso, oggi si festeggia la Giornata Nazionale del Confetto, la cui ambasciatrice è Alice Del Re. 

Il confetto è un “prodotto che si ottiene rivestendo con strati di zucchero, miscelato o non a essenze e a sostanze coloranti innocue, un nucleo centrale di mandorle, nocciole, frutta, o di liquori e creme di liquori. Gli strati di zucchero sono sovrapposti al nucleo per successive bagnature, effettuate in bassine (caldaie preferibilmente in rame o acciaio, in continua rotazione) non troppo riscaldate. I confetti sono utilizzati di solito per festeggiare particolari ricorrenze (nascite, matrimoni, lauree ecc.). L’eventuale colorazione esterna, in genere, corrisponde a una determinata celebrazione.” (cit. Dizionario Treccani).

Quando nacque il confetto come lo conosciamo noi?
Fino a quando l'esercito di Alessandro Magno non scoprì nel 324 a.C. la mitica "canna di Persia”, che divenne poi coltivazione comune anche nella città di Palermo (a proposito, sapete che la parola veneziana "sucaro" ha la medesima radice di "sakhara" che in sanscrito vuol dire sabbia o zucchero?), qualcosina si poteva fare con il miele, unico riferimento dolce che la natura aveva offerto fino ad allora. Apicio (14-37 d.C.) comunque ne parlava già in epoca romana e raccontava che si era soliti festeggiare nascite e matrimoni con particolari dolcini la cui anima di mandorla era avvolta da una pastella cotta di miele e farina.


In realtà “confettare” (dal latino conficĕre, preparare, confezionare) ovvero avvolgere con una sostanza dolce un’anima amara o medicamentosa sembra essere stato l’ingegnoso escamotage alla base della nascita dei confetti. Si racconta che lo scienziato persiano Abu Bakr Mohammad Al-Razi (865-930 d.C.), originario di Ray, un’antica città nei pressi di Teheran, per somministrare le medicine ai pazienti più piccoli ricoprì il “principio attivo”, spesso una mistura amara di erbe e spezie, con uno strato dolce, come fece molti secoli più tardi Mary Poppins, nella celebre canzone “basta un poco di zucchero e la pillola va giù…”.
Quindi una diagnosi ed una cura. E perchè non farla diventare una cura preveniva?

LA TEORIA DEGLI  UMORI
Dovete sapere che tutte le pratiche mediche che furono seguite fino al tardo medioevo si basavano sugli studi, e sulle convinzioni di due scienziati greci: Ippocrate (460 a. C.-370 a. C. circa) e Galeno (130-210 d.C) rispettati medici e filosofi.
Essi ritenevano che la buona salute di una persona dipendesse dal buon equilibrio fra i quattro umori presenti nel corpo: sangue, flegma, bile nera e bile gialla. Lo squilibrio umorale, anche se minimo, si manifestava nel fatto che il corpo diventava troppo secco o troppo umido, oppure troppo freddo o caldo ed andava ad incidere in maniera nefasta sulla salute fisica e mentale. Inoltre nella teoria “atomica” elaborata da Anassimene prima ed Anassimandro poi si riteneva che la materia organica che componeva il mondo allora conosciuto conteneva gli stessi umori presenti nel corpo e corrispondenti ai quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Di conseguenza ciascun tipo di alimento aveva delle caratteristiche umorali proprie e diventata fondamentale seguire un determinato stile di vita composto da corretta alimentazione, un giusto sonno ed un adeguato movimento fisico, per fare in modo quindi che le corrette proporzioni degli umori non si alterassero. Da qui ad affermare che "sia il cibo la tua medicina” il passo fu davvero breve e stabilire che gli alimenti dolci e speziati rappresentavano la summa degli umori fondamentali, ovvero il calore e l’umidità, fu la logica conseguenza.


Ecco allora che somministrare una sostanza zuccherina che ricopriva un medicamento, azione postuma necessaria a correggere uno squilibrio corporeo, fu sostituita dalla somministrazione preventiva, come indicato anche Giovanvettorio Soderini (Firenze 1526-1597) nel suo Trattato della cultura degli orti e giardini: Cuopronsi i coriandoli di zucchero per confetti, rompono le ventosità del ventre mangiati dopo pasto, e rendono buon odore e fanno buon fiato masticati in bocca.”

L’anima dei confetti quindi divenne un prezioso segreto composto da misture speziate ma anche da singoli semini di anice stellato, di cardamomo e di coriandolo e divenne consuetudine offrire piccoli dolcini sia in occasione festose come il Carnevale, durante il quale i patrizi veneziani lanciavano dalle finestre, durante il passaggio dei carri cittadini, confetti di coriandolo (sostituiti nel tempo dai più economici ritagli di carta colorata) che in quelle religiose come durante i festeggiamenti dei matrimoni mistici di monache e monaci, dove venivano offerte preziose coppe ricolme di confetti bianchissimi, ad indicare purezza e castità. Cronache medioevali, infine, testimoniano che l’Opera di S. Jacopo di Pistoia era solita offrire “palline dolcissime con l’anima di anice stellato” ai pellegrini che giungevano in città stremati dal lungo viaggio.
Ma l’eccessiva presenza del confetto nei monasteri, evidentemente, poteva divenire testimonianza di eccessiva debolezza ai piaceri della carne, come testimoniato da Boccaccio nel Decameron, Settima Giornata, Novella terza nella quale “Frate Rinaldo si giace colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio” e si legge di un’accesa filippica contro la mollezza dei costumi dei monaci che vivono in “celle piene d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di malvagìa e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d'unguentari appaiono più tosto a' riguardanti.”

E LE BOMBONIERE?
Fatto sta che progressivo spostamento del confetto verso l’ambito simbolico religioso avviene proprio in questo periodo e la coppa, o la scatola, ricolma di confetti si trasforma in preziosa bomboniera che veniva scambiata in occasione del fidanzamento: i futuri sposi e le famiglie si scambiavano preziose scatolette porta confetti e ilfidanzato donava alla promessa sposa una "coppa amatoria”, un piatto in ceramica che conteneva diversi confetti nuziali, un dono che che doveva assicurare fecondità e prosperità.
Ma questa è un’altra storia.

LE MANI IN PASTA, PARDON, NELLO ZUCCHERO
Ma chi confezionava i confetti? Sicuramente i pasticceri visto che il dolcino medicamentoso aveva perso nel tempo la funzione curativa ed era diventato simbolo ed auspicio di momenti festosi della vita di tutte le persone.

Le prime fabbriche di confetti sono documentate già XV secolo e identificano in Sulmona (L’Aquila) un centro produttivo fiorente e dalle attrezzature tecnologicamente avanzate, tra le quali le "bassine", le stesse che ancor oggi vengono utilizzate dal maestro pasticcere Mauro Morandin (che ringrazio per avermi inviato le immagini che lo ritraggono in alcune fasi della lunga e lenta lavorazione).


Tavole dei primi manuali di pasticceria, XV secolo, Francia



Mauro Morandin nel suo laboratorio

Nel Dizionario delle arti e de' mestieri di Francesco Griselini, pubblicato a Venezia 1772, si legge che Il confetturiere è quello che fabbrica, e che vende confetture, marzapani, biscotterie, e cent’altri articoli diversi fabbricati collo zucchero. Sembra che quest’arte sia stata inventata per alletare il gusto in altrettanti modi quanti ella produce lavori diversi. Non v’hanno frutta, fiori, semi, e piante, per quanto sian eglino buoni naturalmente, cui dar non possa un sapore più grato e dilettevole, oltre di somministrare alle mense de’gran signori il più bell’ornamento. In somma essa può eseguire collo zucchero medesimo ogni sorta di disegni, di piani, di figure, ed anche dei pezzi d’architettura. Tutte le specie di confezioni si riducono ad otto sorta cioè confezioni liquide, marmelade, gelatine, paste, confezioni secche, conserve, frutti canditi, e confetti.”

I confetti, le pastiglie, e le figure di zucchero sono pur anche lavori de’confetturieri. Si fanno dei confetti di tante sorta, e di diversamente nominati, che non sarebbe facile il darne di tutti notizia. Si mettono in confetti dei semi di melone, d’unici, di finocchio, dei pistacchi, delle avellane, delle mandorle di varie sorta si pelate, come da pelare dei pezzuoli di cannella, brocche di garofano, ec. pezzuoli di polpa, o di arancio confezionati, ed altre molte sostanze. La maniera di coprire di zucchero la sostanza che deve formare il nocciuolo del confetto, è la stessa per tutti i frutti, o semi destinati a servire a tal uso; il perché noi pensiamo che recando la maniera di coprire una mandorla di zucchero per formare un confetto, si avrà una sufficiente cognizione di siffatto genere di lavoro. Si fa cuocere in un padellone dello zucchero chiarificato finchè abbia la consistenza di uno sciroppo assai denso. Conviene aver un barile senza i fondi, sulla parte superiore del quale si adatta un catino di rame di tal grandezza che riempia assolutamente il diametro del barile. Si mette in fondo a detto catino la quantità di mandorle ch’ei può contenere, adattando le une presso alle altre; si pone quindi al di sotto del catino entro il barile una fuocaia di bracce capaci di somministrare alle mandorle un dolce calore. Ridotto o zucchero al segno convenevole, se ne versa con un cucchiaio una quantità sulle mandorle, badando di agitarle continuamente con una spatola di legno, onde impedire che non si appicchino le une contra le altre. Si danno alle stesse successivamente parecchi strati di zucchero seguendo lo stesso metodo finchè abbiano acquistata la grossezza che loro si vuol dare. Certi confetturieri danno ai confetti per ultimo strato dell’armido, e la maggior parte lo meschia anche collo zucchero per accrescere il loro guadagno. L’operazione testè indicata è comune riguardo ai confetti lisci, ed ai confetti perlati, e ripieni di picciole punte, che scabrosi li tendono. Si perviene a lisciare i confetti ponendoli in una gran caldaia di rame, col fondo piatto, ove si agitano fortemente per ogni verso, aggiungendovi alcune gocciole di sciroppo freddo, il quale da confetturieri vien chiamato sciroppo cotto da lisciare. Lisciati i confetti, eglino non han d’uopo d’altro che d’essere seccati. A tal effetto si portano nella stuffa, la quale è un luogo, il di cui intavolato è di legname, e le di cui mura vanno corredate di piccioli telai di ferro sopra i quali si adattano gli stacci, che contengono i confetti. Nel mezzo della stuffa havvi una padella, o una caldaia di ferro piena di fuoco. Per fare i confetti perlati si procede nel modo indicato, come per far i confetti lisci sin alla metà dell’operazione; ma quand’abbian oglino acquistata nella prima caldaia la metà della grossezza che loro si vuol dare, si mettono in un'altra, sospesa al soffitto col mezzo di una corda attaccata ai due maniche della caldaia medesima che trovansi diametralmente opposti; e mercè ad un altro manico situato nella di lei parte anteriore, si fanno balzare i confetti al di sopra della caldaia per via del bilanciamento che le si procura si aggiunge dello sciroppo di tempo in tempo, e si tiene sotto la caldaia una padella di fuoco. I diversi movimanti che ricevono i confetti mediante tal operazione, riuscire li fanno con quelle punte di cui li veggiano sparsi. Dopo siffatta operazione, si portano nella stuffa come i confetti lisci. Lo zucchero, che rimane in fondo delle caldaie, viene impiegato a fare dei confetti comuni. Le buone qualità dei confetti sono di essere recentemente fatti, che lo zucchero ne sia puro, senza mescuglio d’amido, che siano duri, secchi, bianchi tanto al di fuori, quanto al di dentro; finalmente che i frutti, i semi, e le altre sostanze che ne formano il nocciuolo, siano fresche. Lo zucchero da fare le mandorle abbrustolite dev’esser cotto alla gran piuma. Si fanno mettendo i un padellone le mandorle, senza che siano state pelate, nello zucchero così preparato: le si agitano fortemente con una spatola di legno finchè lo zucchero sia interamente attaccato alle medesime, e che abbia acquistato un colore brunastro. Questa operazione dee eseguirsi sopra un fuoco ardente.”

Facile, no? 
Anche se non li produrremo mai a casa credo sia importante comprendere quanta maestria e quanta pazienza siano celate tra l'anima di mandorla e il vestito di zucchero cotto e stratificato. E sicuramente abbiamo bisogno di sapere dove si possono acquistare i migliori  confetti e come degustarli adeguatamente.






NOTIZIE DALL’INTERNO: SI FA PRESTO A DIRE MANDORLA
La rivista Gambero Rosso, nel marzo 2013, pubblicò un articolo davvero esaustivo sulla realtà produttiva del confetto italiano redigendo una playlist della dolcezza, dove veniva indicati non solo i 10 migliori pasticceri produttori ma anche quali dovevano essere le mandorle da utilizzare per degustare un prodotto d'eccellenza, mandorla che nel tempo ha sostituito il semi di coriandolo e di anice stellato.

La mandorla di Avola
È coltivata nel Siracusano e tutelata da un Consorzio (www.consorziomandorlaavola.it). In attesa di Igp, si fregia di un marchio utilizzato da pasticcieri, confettieri e trasformatori. La mandorla di Avola non è solo buona, è anche uno scrigno di salute per l’alto contenuto di acidi grassi insaturi, vitamina
E, magnesio, calcio e proteine vegetali. E con una quantità di polifenoli tre volte superiore a quelle californiane. Comprende diverse cultivar.

1 - Pizzuta
È la mandorla eletta della confetteria e della pasticceria di qualità. Il guscio è duro e liscio, con pori piccoli e un’estremità appuntita. Il seme è grande, ha la forma di un’ellisse larga, piatta e leggermente appuntita, con la superficie rugosa color rosso cuoio. Oltre che per la forma, è apprezzata per l’uniformità dei semi e per il sapore ineguagliabile.

2 - Fascionello
Non è impiegata dai confettieri per la forma più tondeggiante e appuntita rispetto alla pizzuta e perché più morbida e grassa quindi soggetta a sudare con il rischio di macchiare il confetto. Ma il sapore è eccellente, un po’ più dolce e delicato di quello della sorella maggiore. Perfetta per gli altri usi di pasticceria.

3 - Romana o corrente d’Avola
È considerata una mandorla di serie B non per il sapore, ricco e pieno, ma per la forma un po’ triangolare e irregolare e perché spesso gemellare quindi di spessore dimezzato.

La mandorla di Torrito
Ha un guscio morbido che si rompe facilmente con le mani. La forma piccola e panciuta non la rende adatta ai confetti. Ma il gusto intenso ed elegante, la pastosità e le note di burro in chiusura ne fanno una delle migliori mandorle italiane, impiegata da produttori di torrone di qualità. La zona di coltivazione è il territorio di Toritto, nel Barese, dove si sono sviluppate varie cultivar tra le quali la “Antonio De Vito” e la “Filippo Cea”. È tutelata da un presidio Slow Food, fondato dalla produttrice di riferimento della mandorla di Toritto, Emilia D’Urso della Masseria Pilapalucci (www.pilapalucci.it).

La mandorla californiana
Spesso spacciata per quella siciliana o barese, è una mandorla grande, bella e regolare, e con una resa del 60% contro il 20% di quelle nostrane. Una ragione c’è: l’irrigazione, che la ingrassa ma ne diluisce anche il sapore. In una parola: sa di poco, vagamente di noce di cocco. E poi è trattata con aflatossine, per questo la Comunità Europea alcuni anni fa ne ha bloccato l’importazione. Com’è andata a finire? Le lobby americane hanno chiesto alla UE di far innalzare il livello di aflatossine permesse. Quindi acquistate mandorle italiane.

La mandorla spagnola
È simile nella forma all’Avola ma è più rugosa e solcata. Il sapore è migliore della californiana ma non raggiunge i vertici delle nostre mandorle.

LA PLAYLIST PIU’ DOLCE: I DIECI MIGLIORI CONFETTI D’ITALIA
1°, MUCCI, Andria (BT), www.confettimucci.it www.muccigiovanni.it
L’“Avola Extra pelata 37/38” dell’antica fabbrica Giovanni Mucci ci ha fatto entrare nel mondo magico del confetto gourmet.
Un confetto di una finezza, un’eleganza e un equilibrio incredibili, dove si uniscono selezione della materia prima, una ricetta che gioca per sottrazione e un’esperienza ultracentenaria.

2°, LABBATE MAZZIOTTA, Agnone (IS), www. labbatemazziotta.it
Azienda dolciaria nel paese molisano sinonimo di campane. Oltre alla pasticceria fresca e secca e alle dolcezze ricoperte di cioccolato si muove bene anche nella produzione di confetti, ottenuti in modo e con ingredienti tradizionali: trattamento con gomma arabica, incamiciatura con amido di riso, confettatura nelle classiche bassine di rame insieme a vanillina.

3°, COLLE-FIORITO, Roma, www.collefiorito1945.it
Questa azienda artigianale romana nata nel 1945 e specializzata in cioccolato e confetti si posiziona al terzo posto con il suo “Avola Impero”. Un signor confetto, grande, molto regolare ed omogeneo di un bel bianco tendente al panna (ottenuto senza colorante). Se al naso non emana profumi, in bocca lascia belle sensazioni di sapore, aromi e consistenza. 

4°, ERNESTO BRUSA, Varese, tel. 0332 288 204
Un confetto di grande personalità dove la mandorla gioca il ruolo di vera star. È l’“Avola Flot Extra Super” della famiglia Usuelli, che ha rilevato l’antico confettificio Ernesto Brusa di Varese, nato negli anni Trenta. Bello nonostante il colore di un bianco sparato che vira all’azzurro (contiene E171): grande e omogeneo, con un sottilissimo strato di zucchero che lascia trasparire la forma sinuosa della mandorla sottostante (calibro 37/38), come una camicia bagnata. Ricorda il Cristo Velato della cappella Sansevero a Napoli.

5°, DOLCE- AMARO CONFET- TERIA MOLISANA Monteroduni (IS), www.dolceamaro.com
L’azienda della famiglia Papa, nata nel 1975 a Cassino, in Ciociaria, poi trasferitasi in Molise, si aggiudica un meritato quinto posto con l’“Avola Extrafino 38/40”. La mandorla è trattata con gomma arabica, maltodestrina e amido di riso prima della confettatura resa più candita con l’aiuto di E171 e aromatizzata con vanillina. Il confetto si presenta molto grande, piatto e regolare, di un bianco leggermente innaturale.

6°, PRISCO MAXTRIS, Scisciano (NA), www.confettimaxtris.it
Prisco è il marchio di Italiana Confetti, con sede a Somma Vesuviana e stabilimento a Scisciano. L’“Avola 40 lusso”, il nuovo confetto dell’azienda napoletana destinato alla nicchia di mercato, confezionato in un’elegante scatola di cartoncino bianco meringa con esili scritte oro e marrone, è un prodotto gourmet con poco zucchero e additivi ai minimi termini: gomma arabica, amido di riso e vanillina, senza E171.

7°, ROSSETTI, Milano, www.rossettisposa.it
“Fabbrica confetti e affini dal 1936” a Milano, Rossetti compete con il suo prodotto di punta, l’“Excellent Bianca Avola 40”, oltre il 40% di mandorla, il resto zucchero, gomma arabica (e talvolta maltodestrina), amido di riso, vaniglia e biossido di titanio. Un bel prodotto, di grande masticabilità, con la camicia di zucchero fine e friabile, che lascia trasparire le rugosità di una mandorla grande, magari dal sapore non esplosivo ma fresca, umida e dalle note aromatiche convincenti e pulite.

8°, PELINO, Sulmona (AQ), www.pelino.it
Pelino è un pezzo della storia del confetto nazionale, con un ricco medagliere di riconoscimenti. Nata nel 1783 nella città sinonimo di confetti, dove ha fabbrica e museo dedicato, continua a produrre le piccole dolcezze secondo antiche ricette di famiglia e orgogliosamente senza amido e coloranti. Solo un po’ di gomma arabica come addensante, vaniglia («in genere del Madagascar») unita a vanillina per aromatizzare.

9°, D’ALESSANDRO, Sulmona (AQ), www. confettidalessandro.it
Altra fabbrica nella città per definizione del confetto, prossima a spostarsi a L’Aquila nella zona industriale, vicino a una delle new town post sisma, dove attiverà altre dolci produzioni.
Il confetto “riserva” dell’azienda di Enzo La Civita (impegnata da anni nella solidarietà, soprattutto nella protezione dei cani) è Sogno di Sulmona, con Avola calibro 38/40 trattata con gomma arabica prima dell’incamiciatura con amido di riso. Forma un po’ irregolare e disomogenea di colore bianco panna convincente (ottenuto senza colorante).

10°, DI DONATO, Pescara, www.didonatoconfetti.it
Un buon confetto l’“Avola Gloria 38” dell’azienda pescarese, anche se un po’ sui generis per quell’aroma di zagara e d’arancia che si avverte al naso e soprattutto in bocca e lo rende poco caratteristico. All’occhio si presenta abbastanza grande, piatto, regolare e di un bianco corretto (con l’aiuto di E171). Lo strato di zucchero piuttosto sottile avvolge una bella mandorla di buon calibro (trattata con gomma arabica), fresca, pulita e dal sapore abbastanza pieno.

Ho riportato le considerazioni di coloro che hanno partecipato al panel di degustazione,  Marco Greggio, agronomo e docente di analisi sensoriale Marco Rinella, pasticciere di Cristalli di Zucchero - Roma la redazione del Gambero Rosso, e le prime righe a corredo di ogni produttore, per far comprendere cosa vuol dire “degustare” un prodotto apparentemente semplice come il confetto, dove la lenta masticazione e la registrazione delle diverse sensazioni olfattive e gustative sono le medesime che venivano evocate nel medioevo con il piacere, a fine pasto, di inebriarsi con una spezia inzuccherata.

Buona degustazione.

Bibliografia
Francesco Ghiselini - Dizionario delle arti e dei mestieri
Sally Spetor - Venice ed i suoi sapori
Laura Malinverni - La cucina medioevale: umori, spezie e miscugli
Ippocrate - Teoria degli umori
Galeno - De elementis secundum Hippocratem
Giovanni Boccaccio - Decameron
Gambero Rosso, rivista Marzo 2013, a cura di Mara Nocilla
web: alcune immagini 

“Le Penne Materane” ovvero Pennette ammolicate con pesto di olive e pistacchio su fonduta di caciocavallo podolico al pepe cubebe per #girodeiprimi

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Qualche tempo fa ho ricevuto un invito da parte di Monica Martino, biologia e blogger, a partecipare ad un giro un po' particolare ovvero quello di scoprire, attraverso un contest, un'azienda italiana, ferrarese, produttrice di pasta a km zero, avendo seminato nei propri possedimenti della Tenuta Cuniola il grano utilizzato per la produzione di un prodotto trafilato al bronzo ed essiccato lentamente, che i buongustai sapranno apprezzare.

Il contest, #girodeiprimi, organizzato da La Melagrana - Food Creativa Idea coinvolgerà 32 foodblogger che si cimenteranno nella realizzazione di una serie di ricette di primi piatti facenti parte di un percorso di valorizzazione di uno degli alimenti cardini della dieta mediterranea e ben interpretato da Pasta di Canossa: dal 9 maggio fino al 2 ottobre, ogni due settimana, si spadelleranno, letteralmente, ingredienti e ricette ispirati alla tradizione gastronomica del sud e delle isole del nostro paese abbinati a diversi formati di pasta.

La prima tappa ha visto come regione d'elezione la meravigliosa Basilicata abbinata al formato delle pennette e non potevo non ispirarmi ai prodotti tipici di questa terra che meglio di me sapranno raccontare i colori ed i sapori della ricetta ideata ovvero "Pennette ammolicate con pesto di olive e pistacchio su crema di caciocavallo podolico al pepe cubebe" dove le Pennette di semolato di grano duro sono state abbracciate da ben tre presidi Slow Food: Oliva infornata di Ferrandina, Caciocavallo podolico della Basilicata e Pane di Matera igp.


Il caciocavallo è il simbolo della tradizione casearia meridionale. Nasce infatti da quella tecnica detta “a pasta filata” che il Sud Italia ha messo a punto nei secoli per garantire conservabilità e salubrità ai formaggi di latte vaccino. La cagliata, ottenuta mediante riscaldamento e coagulazione del latte, subisce una seconda cottura, sino a che diventa elastica e può essere manipolata senza rompersi. Le mozzarelle, le scamorze, i provoloni e naturalmente i caciocavalli sono tutti formaggi ottenuti con questo metodo.

Il Caciocavallo podolico è particolarmente pregiato e si produce con il latte di una razza specifica, la podolica, ancora presente sull’Appennino meridionale. Un tempo era la razza dominante nel nostro Paese, oggi si è ridotta a circa 25.000 esemplari. Le ragioni principali sono due: produce poco latte (anche se di straordinaria qualità) e, per la sua caratteristica rusticità, deve essere allevata allo stato brado o semibrado, mal prestandosi a uno sfruttamento intensivo. Eppure va assolutamente salvaguardata, perché è un presidio naturale del territorio e poi perché i formaggi che si ricavano dal suo latte sono eccellenti.


Nella Collina Materana l’olivo copre oltre l’80% della superficie coltivabile e la cultivar più diffusa è la majatica, che nei terreni argillosi di questa parte della valle del Basento ha trovato condizioni climatiche favorevoli: sia l’olio extravergine ricavato dai suoi frutti, sia le olive da mensa, “infornate” secondo un procedimento tradizionale molto particolare, sono prodotti ottimi. La majatica ha drupe piuttosto grandi, con il nocciolo piccolo rispetto alla massa della polpa. Questa caratteristica è fondamentale per un’infornatura ideale, che richiede olive a maturazione piena, consistenti e di grandi dimensioni.

La stagione produttiva inizia a dicembre e si protrae per i due mesi successivi. La lavorazione vera e propria prevede una prima scottatura in acqua alla temperatura di 90°C per pochi minuti e una successiva salagione a secco per un breve periodo. Le olive, parzialmente disidratate, sono sistemate su graticci e avviate “all’infornata” negli essiccatoi, dove la temperatura arriva a circa 50°C. 


Il Pane di Materaè prodotto da panificatori del materano in base a un antico ed esclusivo sistema di lavorazione che risale almeno al Regno di Napoli e contende a quello di Altamura lo scettro di migliore del Sud. Molteplici le testimonianze, affidate soprattutto alla tradizione orale, che ne rivelano l'importanza per l'economia contadina di tutta la zona: il pane era alimento fondamentale nella dieta quotidiana e spesso veniva circonda da un'aura di rispettosa sacralità. Il disciplinare prevede l'utilizzo di grandi duro di cui almeno il 20% deve venire da varietà tipiche della zona quali Cappelli, Duro Lucano, Capeiti, Appulo che traggono le loro caratteristiche dalle particolari condizioni climatiche e organolettiche del terreno. 

Viene commecializzato nelle forme "a cornetto" o "alto" e di pezzatura compresa fra uno e due chilogrammi.


La mia ricetta, dunque, è un omaggio a questa terra ancora tutta da scoprire e la cui bellezza sa stordire e far innamorare.
Il caciocavallo diventa un elegante letto che addolcisce la frizzante sapidità del pesto preparato con le olive, un profumato bouquet garnì e del pistacchio ed infine la croccante mollica del pane, fritta in poco ed ottimo olio extravergine d'oliva Dauno Dop, proveniente dalla vicina Puglia, faranno raccontare alle pennette una storia unica.

“Le Penne Materane” ovvero Pennette ammolicate con pesto di olive e pistacchio su fonduta di caciocavallo podolico al pepe cubebe

Portata: primo piatto
Dosi per 4 persone
Difficoltà: minima
Preparazione: 15'
Cottura: 6'
Vino consigliato: Fiano di Avellino

Ingredienti
280 g di Pennette di Canossa
150 g di Caciocavallo podolico della Basilicata
75 g di panna fresca
200 g di Oliva infornata di Ferrandina
un piccolo bouquet garni (timo limone, basilico, finocchietto)
1 grossa fetta di pane di Matera
50 g di pistacchi
Olio extravergine d'oliva
sale grosso
pepe cubebe

qualche pistacchio e un pezzettino di caciocavallo grattugiato a julienne per l'impiattamento 

Preparazione

Tostare i pistacchi e far raffreddare.
Lavare il bouquet garni scelto, spezzettarlo grossolanamente con le mani.
Tagliare grossolanamente le olive.
Inserire tutti gli ingredienti in un buon mixer e lavorarli per 1’ con adeguato olio evo, mettere da parte.
Pulire il formaggio dalla scorza, grattuggiarlo con la microplane e scioglierlo nella panna a fuoco dolce, senza far bollire, mescolando con una frusta. Profumare con pepe cubebe e mettere da parte.
Sbriciolare il pane di Matera e friggerelo in olio evo. 
Lessare in abbondante acqua salata le pennette per 5', trasferirle in un saltapasta con il pesto ed un paio di cucchiai di acqua di cottura e far amalgamare il tutto per 1'.
Impattare versando sul singolo piatto la salsa di caciocavallo a specchio, le penne e terminare decorando con la mollica fritta, qualche pistacchio tostato e tritato grossolanamente al coltello e qualche scaglia di caciocavallo.

Bibliografia:
Slow Food, Presidi, Arca del Gusto e Terra Madre
La Basilica, Corsera
AAVV

“HABIBI” o Cheesecake con labna, pistacchi e datteri, sablè semintegrale e topping allo Spritz per la sfida #57 dell’Mtchallenge

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Dolcissimo Amore mio,
sono giorni un po’ strani, sai? 
Faccio fatica a trovare la mia consueta, rassicurante, abitudinaria concentrazione. L’orologio segna l’ora che vuole e anche il calendario non sono più sicura dica la verità.
Attraverso le finestre guardo il vento che gioca con le chiome voluttuose degli alberi del nostro giardino, ti ricordi? Quelli che ti hanno visto diventare grande, quelli dove è ancora appesa la tua altalena. Una per te e una per Habibi, la tua bambola di stoffa dal sorriso mattacchione. Sono diventati così grandi che nascondono le mura. Le mura che volevi sempre scavalcare. Tu e la tua bambola.
E poi sono anche senza forze. 
Lo so che mi diresti che dovrei riposare di più ma dormire sta diventando sempre più difficile.
Di notte mi vengono a trovare tutti i pensieri che durante il giorno, fino a qualche tempo fa, riuscivo a tenere a bada. E mi parlano, mi raccontano i loro, di pensieri. I dubbi che rallentano i loro passi. I gesti non compiuti. Le parole non dette.
Allora lascio che facciano. Lascio che dicano.
Lascio che mi danzino dentro.
Ricordi le nenie che ti cantava la nonna? E ricordi quando danzavate a piedi nudi sulle maioliche colorate del salone? Oh Jamila, i tuoi occhi neri si facevano ancora più grandi e godere del tuo sorriso era come possedere un tesoro appena scoperto!
Sto accarezzando Kira, ora. Sa che ti sto scrivendo ed è venuta a salutarti.
Le manchi molto.
Con papà e con Husam non si parla quasi più. Per non parlare di te.
So che ti pensano ma il ghiaccio si è impossessato del loro cuore e nessuna preghiera potrà sciogliere tutto il dolore.
Ma da quando ho permesso ai pensieri di danzarmi dentro ho compreso che l’amore non potrà mai essere disonore. 
Che l’amore è sorrisi e sguardi.
Che l’amore è luce e vita.
Quella che ti ho dato io. Quella che tu hai dato a me.
Allora sai cosa ho fatto?
Ho preso il coraggio a due mani, ho raccolto tutte le lettere che ti ho scritto in questi anni, ho indossato l’abito più bello e sono andata da Jaber, l’antiquario. Sapevo che il tuo piccolo baule era ancora lì. Sapevo che non l’avrebbe mai dato a nessuno se non a te.
Ora è tuo. 
C’è anche il velo tessuto coni fili d'oro e confezionato con le mie mani e ci sono anche i Ma’amul, preparati con Miriam, che non ha voluto aggiungere l’acqua di rose. 
“Non le è mai piaciuta!” ha brontolato.
Ti amo tanto. Buona vita, Amore mio.”

Mamma


Jamila avvicinò a se la lettera dalla carta leggera e l’annusò. Chiuse gli occhi. Il cuore si strinse e si lascio cullare dal profumo di spezie e di datteri. Non trattenne le lacrime che andarono a confondersi con quelle della madre, annebbiando i contorni delle parole d’amore che erano state scritte con la vecchia stilografica del nonno.

“Jamila, dai! Lo spritz è pronto!” 
La voce di Nicoletta la riportò alla realtà.
“Vengo - rispose - ma preparare uno in più.” chiese alla compagna di appartamento e di vita.
“E chi deve venire?” l'interrogò con voce squillante Nicoletta, affacciandosi alla porta dell’angusta e luminosissima cucina, che si affacciava sul Campo San Lorenzo.

“Mia Madre.” rispose Jamila. “E’ tempo che riprenda a danzare con lei.”


Il Cheesecake, oggetto della sfida 57 dell’Mtchallengelanciata da Annalù e Fabio, è un omaggio ad un biscotto che mi ha sempre affascinato molto, il libanese Ma’mul, e che grazie al dono di Germana, in Libano per lavoro assieme a Magda, sono finalmente riuscita a confezionare. Un dono di due donne ad una donna, com’è nella tradizionale confezione di questo biscotto che vede riunite le donne di una famiglia, o di più famiglie, che preparano quantità considerevoli di questi dolcini che vengono poi donati durante le feste pasquali.
Un gineceo culinario che sa nascondere una farcia preparata con noci, o pistacchi, e datteri in una frolla di semola o semolino. E come vuole la tradizione ogni famiglia custodisce gelosamente la propria ricetta.


Ho quindi unito ai datteri ed ai pistacchi della farcia la labna (la ricetta qui) appena un  po’ speziata con del coriandolo in semi. La base del cheesecake è un sablè poco dolce e reso sapido con l’aggiunta di formaggio grattugiato. Un nucleo di farina integrale e semi lo rende severo ed infine il topping, come da regolamento, che è un omaggio alla città che ha accolto Jamila e Nicoletta, consentendo al loro amore di trovare spazio e patria.

E’ preparato secondo la vera ricetta veneziana, con il Select, che ha un gusto un po’ diverso sia dall’Aperol che dal Campari, e reso appena un po’ sapido con l’aggiunta della polvere di cappero, al posto dell’oliva grande che non dovrebbe mancare mai nella preparazione dello Spritz.


“HABIBI” CHEESECAKE CON LABNA, PISTACCHI, DATTERI, SABLE’ SEMINTEGRALE E TOPPING ALLO SPRITZ

Ingredienti per 4 cheesecake monoporzione da 7 cm di diametro

Ingredienti per la base
180 g di burro 
115 g di farina 00
200 g di farina di cereali tostati (orzo, segale, soia, mais, avena) con semi di lino, semi di sesamo
100 g di fecola
35 g di parmigiano grattugiato
12 g di zucchero semolato
40 g di uova
20 ml di acqua
3 g di sale

Ingredienti per la farcia
250 g di labna (qui la ricetta)
150 ml di panna fresca
6 g colla di pesce
20 datteri grandi freschi (i miei Israele)
60 g  di pistacchi
1 g di polvere di coriandolo
1 g di pepe di Cubebe macinato al momento

Ingredienti per il topping
3 parti di Prosecco (300 ml)
2 parti di Select (150 ml)
1 parte di soda o acqua minerale (spruzzatina ;)
8 g di colla di pesce
2 g di polvere di cappero

granella di pistacchio e qualche germoglio sakura mix per il decoro, se gradito



Preparazione della base
Sabbiare il burro con le farine mescolate e in una ciotola unirlo agli altri ingredienti secchi ed ai liquidi appena sbattuti insieme. Ottenere un panetto e far riposare in frigo per una notte.
Stendere sopra un foglio di silpat sia come sfoglia intera, bucherellando la superficie, che come briciolame, che come biscotti, con spessore di 0,4 cm. Cuocere nel forno già caldo a 190° per 12’-14’.
Abbattere e mettere da parte.

Preparazione della farcia
Pulire i datteri con un panno pulito, togliere il nocciolo interno e tagliare le due metà prima e poi in piccola dadolata. Attenzione a non scaldare troppo la materia prima: ne risulterà difficoltosa l’operazione.
Tritare grossolanamente i pistacchi.
Scaldare per 1’ la panna nel forno a microonde a 750W, unire la colla di pesce ammollata nell’acqua fredda e strizzata, mescolare bene.
In una ciotola mescolare la labna con la panna e le spezie e unire successivamente i datteri ed i pistacchi.
Foderare gli stampi moniporzione con un triplo strato di pellicola alimentare lasciando che ne sporga un po’ dai bordi oppure utilizzare della carta fata (l’acetilene è la soluzione migliore ma non ne avevo a disposizione) e far riposare in frigo: Trasferire la farcia in un sac a poche.

Preparazione dello Spritz
Mescolare insieme tutti gli ingredienti, scaldarli per 30’’ nel forno a microonde, sciogliere la colla di pesce ammollata e strizzata e mettere da parte.

Preparazione del cheesecake
Frullare 300 g di sablè e mescolare la polvere con 80 g di burro salato. Distribuire il composto nei quattro stampini, premendo e livellando la superficie e abbattere in negativo per 10’.
Distribuire la farcia, sbattendo gli stampini così da eliminare eventuali bolle d’aria e abbattere in negativo per 10’.
Terminare con il topping e conservare in frigo fino al momento del servizio.
Decorare con granella di pistacchio.


Con questa ricetta partecipo alla sfida 57 dell'Mtchallenge.it


Panna cotta di Casatella Dop al profumo di fava tonka con chutney di mango, papaya e pere per festeggiare un matrimonio prestigioso

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La Casatella Dop in questi giorni festeggia un compleanno ed un matrimonio importanti: il riconoscimento della Dop, avvenuto otto anni fa, grazie all'impegno del Consorzio per la tutela del Formaggio Cascatella Trevigiana nato nel 2001 per preservare la tipicità di un formaggi le cui origini sono intimamente legate alla storia e alla tradizione del territorio trevigiano.
Il Consorzio, proprio per salvaguardare l'unicità della Cascatella ha attivato un severo e costante monitoraggi lungo tutto il percorso produttivo che coinvolge sia gli allevatori che i caseifici trasformatori.

Caratteristiche
La Casatella ha un profumo lieve e fresco di latte, ha un sapore dolce appena acidulo.
Per ottenere la sua bontà si lavora il latte a circa 38 gradi, si aggiunge il caglio liquido e nel giro di massimo 40' si coagula. Si rompe la cagliata, si lasciar riposare per 45', si opera una seconda rottura così da ottenere dei coaguli di dimensione di una noce: a questo punto si lavora massa agitandola lentamente. E si attende 10' per lo spurgo.

A questo punto la massa viene posta in forme che devono essere cilindriche obbligatoriamente così da consentire l'uscita del siero. La salatura, che avviene in salamoia, avviene in tempi diversi che vanno dai 40 ai 120' a seconda della dimensione delle forme. La Castella è un formaggio fresco e quindi non deve essere sottoposto a stagionatura: basterà lasciarlo maturare dai quattro agli otto giorni e la certificazione della sua assoluta bontà sarà il confezionamento su incarto del Consorzio.
Ed è pronto per essere consumato!

Ma con che cosa è confezionata la Casatella? Con il latte! E di quali vacche? Soprattutto di due: la Frisona e la Bruna Alpina.


La Frisona Pezzata Nera è la razza più importante del mondo per l'elevata produzione del latte e per l'ensione della sua diffusione. E' originaria dei celebri pascoli o polders dell'Olanda ed è riuscita ad ambientarsi in quelli tedeschi, francesi, canadesi, israeliani e naturalmente italiani. Venne introdotta attorno agli anni '20 del secolo scorso, soprattutto nell'agro romano Romano appena bonificato, e a cavallo delle due guerre fu quasi completamente soppiantata dalla razza Bruna Alpina. Nel 1955 fu ufficialmente adottato il nome di Frisona Italiana e oggi questa razza ha raggiunto elevanti livelli morfologici, comparandola con quelle autoctone.



La Bruna arriva invece dalla Svizzera centrale e la sua capacità lattifera si perde in tempi lontani: documenti relativi a questa attività risalgono all'anno 1000 e sono stati i monasteri e le corporazioni religiose a dedicare particolare attenzione al miglioramento genetico della razza con azioni di selezione che si sono ripetute fino al XIX secolo. Attualmente il primato per i numeri dei capi è dell'Italia e il suo latte ha buone caratteristiche merceologiche ed è particolarmente adatto alla trasformazione in formaggio per gli elevanti tenori di grasso e proteine.

La ricetta che vi propongo oggi è un dessert, un po' peccaminoso, per dolcezza, morbidezza e profumo, come dovrebbe essere una sposa, accompagnato da un chutney che viene da lontano.
E con l'asparago di Badoere IGP? Prepareremo un concentrato detox, ma non ora, fra qualche giorno, così da godere in tutta tranquillità del dessert "nuziale".

PANNA COTTA DI CASATELLA AL PROFUMO DI FAVA TONKA CON CHUTNEY DI MANGO, PAPAYA E PERE E CRUMBLE DI SABLE'


Ingredienti per la panna cotta (6 porzioni)
200 g di Casatella Dop
200 g di latte intero
200 g di panna fresca
70 g di zucchero di cocco 
6 g di gelatina
fava tonka

Ingredienti per il Chutney di papaya o mango
1/2 papaia e 1/2 mango, maturi
2 pere William
1 cipolla di tropea
3 cucchiai di zucchero di cocco
1 noce di burro salato
1 cucchiaio di zenzero fresco grattugiato
3 cucchiai aceto di mele


Preparazione

Preparare il sable seguendo le indicazioni di questa ricetta 
e mettere da parte.

Mettere in una ciotola la colla di pesce con un po' di acqua fredda.

In una casseruola con il fondo pesante portare a bollore il latte con la panna, lo zucchero e la fava tonka e fuori dal fuoco frullare con la Casatella. Unire la colla di pesce ammollata e strizzata e dividere il composto in stampini di silicone oliati. Abbattere in positivo.

Nel frattempo preparare il chutney di mango e papaya.
Mondare e cubettare la frutta e tritare la cipolla.
Stufare la cipolla in una casseruola con una noce di burro salato.  Unire la frutta, lo zenzero, lo zucchero e sfumare con l'aceto di mele. Cuocere a fuoco dolce per 30' o fino a quando l'acqua si sarà completamente assorbita. 
Frullare, abbattere e mettere da parte.
Impattare il dessert unendolo al chutney e al crumble di sablè.




Voglio condividere con voi i ricordi di una bella giornata di fine estate, la scorsa, trascorsa con alcune associate Aifb in occasione di un piacevolissimo blogtour nella Marca Trevigiana. Ci siamo alzate all'alba per andare nella Malga Malvine "Binot"a mungere la  Bruna e la Pezzata, e trascorrere una giornata nell'habitat naturale di cui ogni vacca dovrebbe godere, tra fiori e professori e vigili cani Pastori.

l'ingresso della Malga "Binot"


Tavola apparecchiata


Fiore edulo ;)


 Occhio che vi vedo!


Dotte chiacchiere con il prof. Danilo Gasparini


Bigliografia:
Caseus Veneti
Consorzio Tutela Formaggio Casatella Dop
Le forme del latte, Slow Food


Fusilli con arselle al mirto, bottarga e zafferano per la seconda tappa del #girodeiprimi: la Sardegna

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Dove vi porto oggi per la seconda tappa del #girodeiprimi
Nella meravigliosa Sardegnal'isola più misteriosa del Mediterraneo, chiusa alle influenze esterne: la sua origine si perde nella notte dei tempi e secondo il suggestivo mito della Tirrenidde, venne addirittura raggiunta a piedi dai primi abitanti, in quanto originariamente unita alla terraferma.
Già nel 1800 a. C. si diffuse la civiltà nuragica, un popolo di pastori guerrieri che rimase radicato sul territorio per circa 1300 anni, lasciando importanti tracce della cultura dei nuraghi, le caratteristiche abitazioni-fortezza, alcune delle quali ancora godibili oggi.

Il formato di pasta che è stato abbinato alla Sardegna sono i Fusilli, non certamente caratteristici dell'isola. Ma sono venuti in aiuto ben quattro ingredienti tipici della cultura gastronomica sarda, conosciuti in tutto il mondo: le arselle, lo zafferano e la bottarga, mentre il mirto, un arbusto dalle proprietà magiche e protagonista nelle narrazioni mitologiche, servirà per aromatizzare l'olio evo utilizzato e renderlo così di buon auspicio.


Lo Zafferano di Sardegna Dop Presidio Slow Food viene coltivato a San Gavino Monreale, una provincia istituita nel 2005 e che verrà "dismessa" il 2016.
I fiori si raccolgono a mano nelle prime ore del giorno, quando sono ancora chiusi o leggermente aperti, e poi si dispongono dentro le ceste in strati sottili, facendo attenzione a non comprimerli. A questo punto comincia un lavoro meticoloso e delicatissimo, che prevede mestiere, tempo e molta pazienza. Con entrambe le mani si aprono i petali e si separano gli stimmi. Poi, con le dita leggermente unte di olio (extravergine, biologico e prodotto in Sardegna) si umettano e infine si pongono a essiccare. Si possono esporre al sole o sistemare accanto al camino: l’importante è che il calore sia blando (la temperatura non può superare i 45°C) in modo che il processo avvenga lentamente. Per ogni ettaro coltivato si ottengono, mediamente, 9 o 10 chilogrammi di zafferano essiccato. 



Bottarga di muggine di Cabras e una delle peschiere più note della Sardegna e del mediterraneo è Pontis, nella laguna di Cabras (provincia di Oristano): ha più di quattro secoli, è una costruzione che risale al periodo della dominazione aragonese, quando Filippo IV concesse la laguna a un banchiere genovese in cambio di finanziamenti per la guerra con la Catalogna. 

La pesca a Pontis, come in altri stagni dell’oristanese (Marceddì, Mistras, Corru s’ittiri, Is Benas e altri) inizia poco dopo l’alba. Devono essere presenti quindici pescatori per calare su pezzu, una rete che si misura ancora in pass, cioè passi. I pescatori indossano mute da sub e calzano maschere per proteggersi dai pesci. I primi a calarsi in acqua reggono alta la rete con un bastone e avanzano fino a quando la rete circonda lo stagno appoggiandosi sul fondo. Quando il cerchio formato dalla rete si chiude, i pescatori lo stringono avvicinandosi l’uno all’altro. I muggini sono raccolti quindi con un retino, chiamato su bigheddu. I pesci più grandi sfuggiti alla rete che stanno rintanati ai bordi dei lavorieri e vengono catturati uno a uno con le mani. Nelle giornate buone in un’ora e mezza se ne possono pescare dai sei ai dieci quintali che finiranno sul mercato di Cagliari o sui banchi delle pescherie di Oristano. La bottarga si ottiene dalla gonade matura – cioè dalla sacca ovarica con le uova – dei muggini femmina e il processo di lavorazione tradizionale, che ne garantisce le giuste caratteristiche gustative, prevede l’asportazione della sacca ovarica senza danneggiarla, la sua lavatura in acqua salata per eliminare i residui di sangue e la successiva posa sotto sale per un tempo variabile a seconda delle sue dimensioni e della temperatura ambientale. Prima che sia pronta per essere consumata esige un’essiccatura di 4-15 giorni al clima ventoso di Cabras. Il bollino di qualità della bottarga di Cabras è un lembo di pelle argenteo risvoltato e ancora attaccato alla sacca.



Il mirto è un arbusto della macchia mediterranea che ha trovato nella Sardegna l'habitat naturale: raggiunge i due metri di altezza ed i suoi frutti maturano dalla fine di novembre ed è da questo periodo che inizia la raccolta manuale delle bacche, con le quali si ottiene il famoso liquore che porta lo stesso nome della pianta.
Dal riposo in infusione idroalcolica a freddo delle foglie si produce un'alta tipologia di liquore, il mirto bianco, dal colore chiaro o verdognolo, con odore e sapore più delicati rispetto alla versione classica. E' un ottimo digestivo.

La pianta di mirto è stata da sempre associata all'universo femminile e alla femminilità: molti dei nomi di eroine ed amazzoni mitologiche avevano nel nome la radice dell'arbusto magico, Myrtò, la regina delle amazzoni che combatte Teseo, Myrsìne, Myrtìla. Myrtò era un'amazzone che aveva combattuto Teseo come Myrìne era la regina delle Amazzoni, in Libia. Nel mondo latino il mirto era la pianta sacra ad Afrodite, dea dell'amore, e venne definita da Plino"Myrtus coniugalis" in quanto si usava nei bancheti di nozze come augurio di una vita serena e ricca di affetti.
Era considerata una pianta di buon augurio e di buona fortuna, tanto da decorare il capo di futuri condottieri ma aveva anche un significato funebre a testimonianza che la vita e la morte sono sempre stati un tutt'uno nell'universo nel normale evolversi della vita.  


Dall'invito ricevuto  Monica Martino nasce la mia partecipazione al contest, #girodeiprimi, organizzato da La Melagrana - Food Creativa Idea dove 32 foodblogger si cimenteranno nella realizzazione di una serie di ricette di primi piatti facenti parte di un percorso di valorizzazione di uno degli alimenti cardini della dieta mediterranea e ben interpretato da Pasta di Canossa: dal 9 maggio fino al 2 ottobre, ogni due settimana, si spadelleranno, letteralmente, ingredienti e ricette ispirati alla tradizione gastronomica del sud e delle isole del nostro paese abbinati a diversi formati di pasta.

FUSILLI CON ARSELLE ALLO ZAFFERANO,OLIO AL MIRTO E BOTTARGA 

Ingredienti (per 4 persone)
280 g di fusilli
500 g di arselle 
10 g di bottarga di tonno 
3 bacche di mirto e qualche foglia
3 pistilli di zafferano
20 g di Pecorino sardo dolce Dop
1 spicchio d'aglio fresco
vino bianco secco
sale iodato
pepe di Sarawak

Preparazione
Il giorno prima scaldare l'olio con le bacche e le foglie di mirto. Lasciar raffreddare e riposare al buio.
Lasciar spurgare in acqua fredda salata le arselle.
In un work o saltapasta far aprire le arselle a fuoco vivo con l'olio al mirto e lo spicchio d'aglio, sfumare con il vino bianco. Una volta evaporato unire i pistilli di zafferano e mettere da parte.
Lessare in acqua salata i fusilli e cuocerli per 5'.
Scolarli e terminare la cottura in un saltapasta per 2' con le arselle e servire immediatamente con la bottarga grattugiata e il pecorino tagliato sottilmente con una mandolina.




Bibliografia:
Slow Food, Presidi, Arca del Gusto e Terra Madre
La Sardegna, Corsera
Antonello Spanu, le vie del mirto

Con questa ricetta partecipo al contest #girodeiprimi indetto da La Melagrana – Food Creative Idea e Pasta di Canossa  
#lamelagranafood  #pastadicanossa #labuonapasta #lapastachesadipasta

Noodles con uova, verdure e gamberoni: un breve viaggio nella storia e nella cultura della cucina cinese (e la grammatica della bacchette)

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Sin dai tempi più remoti, i pensatori e gli scrittori cinesi hanno costantemente affrontato il tema dell’alimentazione, tant’è vero che il nome di un piatto non si riferisce ai suoi ingredienti bensì alla qualità del piatto stesso. Così la zuppa d’uovo è chiamata “la delicata brezza di una notte di luna piena”: un piatto preparato in una zuppiera è detto “tutta la famiglia è riunita.

La cucina cineseè considerata un’arte, fa parte della cultura millenaria del paese e gode di una notevole popolarità in tutto il mondo.
Si fonda essenzialmente sull’armonia tra gli alimenti fan, riso, sorgo, miglio, bambù e grano, e quelli tsai ovvero tutto ciò che accompagna i fan: verdure, funghi, carne e pesce. E l'alimentazione sana si sa sull'equilibrio perfetto tra la dualità dello Yin (alimenti rinfrescanti freddi) e dello Yang (alimenti energetici e caldi), concetto millenario accettato da tutte le scuole di pensiero filosofico e che governa buona parte del comportamento quotidiano.L’armonia cromatica è parte fondamentale del piatto dove l’ingrediente principale viene accostato ad altri secondari così da poter avere da tre a cinque colori in ogni piatto

Gli alimenti si suddividono ulteriormente nei Cinque Elementi:
Fuoco, degli alimenti amari e/o di colore rosso, ottimi per il cuore e l'intestino tenue, carne d'agnello e capra, peperoni, caffè, cacao e alcuni liquori.
Legno, degli alimenti agri e/o verdi, come anatra, pollo, grano e il tè d'ibisco e favoriscono il corretto funzionamento del fegato e della vescica.
Acqua, elemento degli alimenti salati e di color nero, ideali per i reni e per la vescica. dell'elemento acqua fanno parte anche alcuni legumi.
Terra, degli elementi che danno vigore alla milza e allo stomaco, quelli di colore gialle e/o dolci, come il mais e il miglio, ortaggi come la zucca e la carota e buona parte della frutta.
Metallo, elemento che comprende gli alimenti piccanti e/o bianchi, necessai a rafforzare i polmoni e l'intestino crasso come il riso integrale, il crescione, la rapa e infine il vino caldo.

La cucina che conosciamo noi, ampiamente adattata alle esigenze europee, è quella della regione del Guangdong in quanto fin dal XIX secolo moltissime famiglie emigrarono da quella regione in Europa e negli Stati Uniti: spicca nettamente la nota agrodolce e l’utilizzo della salsa di ostriche, nata da una dimenticanza di un cuoco.


Come per quella indiana anche la cucina cinese sente forte l’influenza della geografia così che i quattro punti cardinali caratterizzano anche quattro diverse tipologie di cucina
Quella del nord, dal fiume Yangtze fino alla Grande Muraglia, offre stili culinari di Shantung, Henan e Pechino nei quali predominate è l’uso di cereali come grano, mais o miglio, utilizzati anche per preparare pane, spaghetti o frittelle. Si tratta di una cucina molto sapida e sostanziosa dove vengono ampiamente utilizzati pollo e tofu. Il piatto più conosciuto? Sicuramente l’anatra laccata alla pechinese.


La cucina dell’ovest è quella situata all’interno della Cina, comprende l’area di Sichuan e Hunan. L’isolamento ha caratterizzato nel tempo una cucina molto piccante grazie all’uso del famosissimo pepe di Sichuan ma anche di peperoncini rossi e di zenzero. Molto amati i piatti a base di maiale, pesce e di frutta. Il piatto più apprezzato è a base di tofu e peperoni piccanti. 

La cucina dell’est caratterizza l’area geografica che va dalla costa orientale fino al centro della Cina e comprende gli stili gastronomici di Fujian, Jiangxi, Zhejiang e, il più importante, quello di Shanghai. E’ una cucina ricca di frutta e verdura, grazie anche alle terre fertili che caratterizzano queste aree, e quindi prevalentemente vegetariana. Le carni vengono trasformate nella cottura grazie all’uso dello zucchero e si prediligono le tecniche del vapore e della rosolatura.
Infine, ma non per importanza, la cucina del sud della Cina, dove spicca quella cantonese che utilizza tantissimi prodotti e abbondanti condimenti e salse. Si tratta di una cucina raffinata dove è fondamentale la freschezza della materia prima: carni, pesci d’acqua dolce e salata, verdura e funghi vengono acquistati tutti giorni nei caratteristici e fornitissimi mercati cittadini.


Un discorso a parte merita la cucina di Taiwan caratterizzata dalla mescolanza di colori, di aromi e di sapori, presentata in maniera squisita e dove si possono trovare, alle volte anche riassunti, quasi tutti gli stili regionali cinesi: pesce alla griglia, cucina di Sichuan, anatra alla pechinese, il riso utilizzato in infiniti piatti ed i dolci presentati sotto forma di ravioli cotti al vapore o fritti.
Le porzioni di un pranzo cinese non sono servite individualmente: i piatti da portata si collocano al centro del tavolo dai quali si trasferisce il cibo in quelli di ogni commensale utilizzando le famose bacchette per le quali vige un codice di comportamento rigorosissimo. Non bisogna introdurre le bacchette nella bocca mentre si mastica, non bisogna farle cadere pena l’avvicinarsi di disgrazie immani, non si infilza il cibo, non si conficcano in un piatto di riso ed infine non bisogna assolutamente gesticolare con le bacchette mentre si parla!

Infine Marco Polo, il mercante veneziano (1254-1324), che diffuse in Europa le culture dell'Estremo Oriente, e che fece parte del corpo diplomatico dell'imperatore cinese Kublai Khan: nel suo diario di un viaggio lungo vent'anni, "Il Milione", esaltò la cucina cinese dell'epoca affermando che "nessuna cucina al mondo offre tanto piacere con così poco".

Noodles con uova, verdure e gamberoni

Il piatto di oggi è un piatto semplice nella preparazione ma elegante nel gusto: l’utilizzo del wok consente di accorciare i tempi di cottura, restituendo i singoli ingredienti croccanti e ben amalgamati tra loro.

Preparazione: 25’
Cottura: 25’
Difficoltà: semplice

Ingredienti
300 gamberoni o mazzancolle senza testa
200 g di seppia
250 g di noodles
2 uova Bio

100 g di piselli freschi (surgelati o in scatola se la stagione non aiuta)
2 cipollotti
1 cipolla rossa 
1 carota
1 pezzettino di radice di zenzero 
50 ml di salsa di soia bio
25 ml di sake 
sale iodato 
brodo vegetale
olio di semi di mais 
pepe di Sichuan in grani
prezzemolo fresco per la decorazione

Preparazione
Pulite i gamberoni, eliminate il carapace e il budello interno e lasciate marinare qualche minuto con il sake, un pizzico di sale e una macinata di pepe di Sichuan e ripetete con la seppia pulita e tagliata a julienne.
Mondate e tagliate anche le verdure a julienne e sottilmente la cipolla.
Grattugiate la radice di zenzero e in una ciotola sbattete le uova con un pizzico di sale ed una macinata di pepe di Sichuan. Cuocete da entrambi in lati una sottile frittatina utilizzando una padella antiaderente molto calda. Tagliatela a listarelle e mettete da parte.
Nel wok, con un paio di cucchiai di olio, cuocete dolcemente il porro e il cipollotto, unite le carote ed i piselli ed aggiungete un paio di mestoli di brodo vegetale.
Dopo qualche minuto aggiungete la seppia, i gamberi e la salsa di soia con lo zenzero grattuggiato.
Nel frattempo portate a bollore dell’acqua salata e lessate i noodles per 2’, mescolandoli così che non cuociano in blocco.
Trasferiteli nel work, unite un mescolo di brodo vegetale e portate a termine la cottura per altri 2’.
Servite immediatamente con dell’altra salsa di soia a parte e decorando il piatto con prezzemolo fresco tritato finemente.

Carpaccio e Bellini: la magnifica coppia, Arrigo Cipriani e la bellezza

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Per il Calendario del cibo italiano di Aifb oggi si festeggia la Giornata Nazionale del Carpaccio, la cui ambasciatrice è Lara Bianchiniho pensato che invece di raccontarvi una mia ricetta sarebbe stato più interessante farla raccontare dal suo ideatore, Arrigo Cipriani.

Si racconta che ai clienti che entrano chiedendo di sedersi al tavolo che abitualmente occupava Hemingway  Arrigo Cipriani indica un tavolo a caso “tanto, cosa vuole che ne sanno”. 
E si racconta anche che durante il regime fascista il padre Giuseppe, fondatore del locale, all’intimazione di esporre un cartello in cui si vietava l’ingresso agli ebrei, obbedì effettivamente, attaccando il cartello sulla porta della cucina, invece che all’ingresso del “suo” Harry’s Bar.

E' un tardo pomeriggio di maggio, scortata da un cielo i cui colori promettono, promessa mantenuta poco dopo, di aprirsi in un prova generale di diluvio universale, quando entro all’Harry’s Bar. Devo incontrare Arrigo Cipriani e non nascondo una certa emozione.
Abbiamo appuntamento alle 17.00. “Sta arrivando, è appena tornato da Dubai”, mi rassicurano.
Chiedo di poter fotografare, permesso che mi viene concesso quasi con stupore, ma dimentico quasi subito di farlo, immersa come sono nel piacere di osservare i clienti.
MI siedo su una delle poltroncine, studiate nei minimi particolari nelle forme e nell’altezza, come i tavolini, che arredano una stanza piena di avventori sorridenti e non rumorosi.
“Le porto qualcosa, nel frattempo?”
Ecco apparire il mitico Bellini servito in un bicchiere cilindrico, un tumbler alto.
Il cameriere, che indossa una giacca candida e dai modi oltremodo gentili, con gesti che assomigliano ad una danza, piega ad arte i tovaglioli logati dal celebre simbolo. 


“Le porto anche una polpetta?”
Arriva, perfetta, sembra preparata con il calibro. Ma non viene lasciata sul piatto. Viene avvolta da un tovagliolino in modo tale da poterla mangiare con le mani ma senza sporcarsi, come dovrebbe avvenire per ogni cicchetto che si rispetti.
Naturalmente è buonissima, morbida e croccante, come buonissimo è il Bellini, preparato con il succo di pesca bianca e le bollicine del prosecco. E convengo con il barman che il tumbler alto è il “suo” bicchiere.

Arriva Arrigo Cipriani e si scusa dei pochi minuti di ritardo, si confronta brevemente con un cameriere e si siede.
Un sorriso aperto ed un paio di occhi dall’intelligenza arguta mi anticipano due ore di chiacchiere piacevolissime e leggere, mai frivole.
“Dove sta andando Venezia?” gli domando con la voce un po' roca dall'emozione.
Un’ombra attraversa lo sguardo.
“Di Venezia resteranno le pietre. Sono le persone che rendono viva una città. Le persone nella loro quotidianità, che fanno la spesa nei negozi di quartiere, che si incontrano e si salutano, che si occupano di tenere in ordine e puliti calli e campi.”
E mi mostra le foto scattate qualche giorno prima con lo smartphone: ritraggono una panchina mezza divelta poco distante da un imbarcadero. “Ma le pare possibile? A Venezia? Cosa costerebbe ripararla? E cosa costa alla città una bruttura simile?”. Foto regolarmente inviate agli account social del sindaco, Brugnaro, a cui viene rimproverato di non essere veneziano. “E’ di Mogliano.” chiude tranchant con un sorriso che dice molto di più.


Mi racconta del suo recente acquisto, ventimila piantine di “castraure”, il carciofo violetto, presidio Slow Food, che cresce nell’isola di Sant’Erasmo. Quantità che raddoppierà il prossimo anno. Vengono lavorate nella cucina del ristorante di Venezia e poi spedite, per via aerea, agli altri locali della galassia Cipriani. 
Sono come dovrebbero essere le castraure: piccole, morbide, condite con un filo d’olio, deliziosamente sapide (la sapidità degli ortaggi veneziani) e disposte come un fiore sul piatto. Il bello che ritorna. Come nei gesti dei suoi collaboratori e come nell’altezza dei tavolini.

“E come sono i suoi cuochi?” memore delle sue recenti esternazioni legate ai cuochi televisivi ed alla "guida dei copertoni" (Michelin, ndr)
Bravi e non presenzialisti. Chi è sempre in tv dimentica velocemente la fatica della cucina, un luogo dalle temperatura altissime e che mina qualsiasi fisico. Infatti a preparare i piatti freddi, nei miei locali, sono le donne. Ma non vuole fermarsi a cena? Solo uno spuntino.”
Ci spostiamo al piano di sopra, in una sala dai colori caldi. 
Gli chiedo se sono cambiati i clienti mentre viene stesa sul tavolo rotondo un’essenziale tovaglia di lino e viene apparecchiato con pochi pezzi. In un bicchiere da champagne, di quelli meravigliosamente forgiati a piccola coppa, viene versato un Ribolla gialla spumantizzato davvero notevole, di produzione di un’azienda agricola del trevigiano, Sutto.


Ed ecco apparire “il” carpaccio, il piatto di carne cruda ed accompagnato con un filo, un filo!, di salsa “universale” (perché va bene con tutto, come precisa Arrigo) preparata con maionese, pepe ed un po’ di salsa Worcester.
Si scioglie in bocca nella sua morbidezza, temperatura di servizio perfetta. La bellezza si cela anche in un piatto apparentemente semplice ed impeccabile. Senza che la pietanza principale sia adagiata “sopra un letto di qualcosa”.
I suoi ristoranti sono 23, sparsi in giro nel mondo. Dalla Grande Mela agli Emirati Arabi migliaia di Clienti vengono accolti e soddisfatti: ai tavoli dell’Harry’s Bar veneziano, prima, e in tutti gli altri Harry’s si sono seduti re, principi, i protagonisti della Storia e le stelle dello spettacolo – da Woody Allen a Giorgio De Chirico, da Ernest Hemingway a Frank Sinatra. 


E clienti cafoni?
 «Venezia mette più soggezione di Ibiza e comunque si riconoscono da lontano e non solo per l’outfit: sono disposti a spendere anche 800 euro per la bottiglia più costosa e non sanno neanche che vino è. Ma anche a Venezia, purtroppo, qualcosa è cambiato e lo evince proprio dall’abbigliamento. Rispetto ad anni fa c’è più libertà nel vestire e mi auguro che questa tendenza cambi. E’ una forma di rispetto reciproco essere ben vestiti.”

Mi chiede se voglio una fetta di torta. Non riesco a replicare. Ancora con movimenti felpati, come quelli di un gatto e senza che distratta la conversazione, viene cambiata la tovaglia (si, avete letto bene, il dessert viene servito sopra una tovaglia intonsa) ed arriva una fetta di torta al limone sopra la quale, vezzosa, fa bella mostra di sé una meringa morbida ed appena “bruciata”.
Gli chiedo se si sente uno scrittore, del resto ha al suo attivo molti libri e tutti di successo, e me ne fa portare subito un paio, che effettivamente non possiedo, tra cui uno “A Tavola” pubblicato da Rizzoli nel 1984, fuori produzione ahimè, che vi consiglio davvero di  leggere.
“I miei sono pensieri in libertà. Sono un ristoratore che scrive libri. Se fossi stato uno scrittore con un ristorante avrebbe fatto più notizia.”
Trascorrono veloci i minuti ed improvvisamente l’Apple Watch che indossa si illumina.
“Avrei un appuntamento con il personal trainer, alla mia età devo prendermi cura di me.” E sorride ironico mentre si paragona alle castraure che coltiva “siamo entrambi molto vicini alla terra.”


Ci salutiamo e ci promettiamo di vederci nuovamente. Appuntamento già fissato in agenda.
Mentre esco dal locale, accolta da un vento freddo che assieme all’acqua sembra aver fatto piazza pulita di tante brutture che sciupano irreparabilmente Venezia, mi viene in mente una frase di Zanzotto circa l’obbligo di difendere la bellezza “perché noi siamo il paesaggio che vediamo’’.


In treno faccio uscire dallo zaino il suo ultimo libro, “Stupdt o l’arte di rialzarsi da terra”, storie di ottuangenari ricchi di comicità e ironia. Uno stupidario colto e intelligentissimo sui meccanismi che regolano i rapporti umani in determinate condizioni.


Mi è rimasta in mente, come a mezz'aria, una domanda: “La bellezza salverà il mondo dalla stupidità?”


Ecco l'ispirazione dei celebri piatti di Arrigo Cipriani

"Rosso Relativo" ovvero Zuppa dolce di ciliegino, rabarbaro e frutti di bosco con quenelle di ricotta di pecora e grue di cacao

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A me il rosso non è mai piaciuto.

Neppure il famoso Rosso Valentinoanche se declinato in una tonalità decisamente elegante, come solo la maestria dello stilista avrebbe potuto fare.
Non mi piace il rossetto rosso che, detto fra noi, può essere indossato solo da labbra che non abbiano superato i 20 anni. Poi l'effetto ragnatela sarebbe indubbiamente controproducente.
Non mi piace lo smalto rosso. Appena appena il rosso sangue di piccione che praticamente è un sangue morlacco illuminato. Per indossare uno smalto rosso bisogna avere mani esangui, senza segni di alcun tipo, con il letto dell'unghia lungo. Insomma un paio di mani che non fanno molto durante la giornata o, quantomeno, non ravanano interiora di pesci, melanzane e carciofi, a seconda della stagione.
Credo di avere un solo paio di mutande rosse e solo perché me le hanno regalate. E comunque non le ho mai indossate.
Non ho neppure scarpe rosseMa per le scarpe è sempre pronta una deroga.
Non mi piacciono le rose rosse. Troppo pathos. Preferisco quelle antiche spampinate, con i petali apparentemente spettinati come si fossero appena alzate dal letto. E poi i tulipani neri, le ortensie azzurre ed i crisantemi bianchi. 
Ma questo è un altro discorso.


Nel tempo ho imparato ad amare il colore rosso, iniziando con l'arredamento.
L'acquisto, trent'anni fa, di una Vanity prodotta da Poltrona Frau e disegnata nel 1930, fu la mia prima manifestazione di affetto nei confronti del colore che per tutte le popolazioni del mondo corrisponde alla vita, alla vitalità, al vigore sessuale (ecco spiegato il perché delle mutande).
E dall'arredamento l'attenzione si è spostata all'orto con un grande dilemma: ma prima della scoperta del nuovo mondo, al netto del cocomero, quali erano gli ortaggi ed i cibi rossi?
Il pomodoro, o "purpurea meraviglia", per molto tempo adottato come pianta ornamentale, curiosità con variazioni di nomi e colori, aveva nella sua natura, nella sua consistenza alcune qualità che lo rendevano, agli occhi della teoria degli umori, poco appetibile: era umido, ricco d'acqua, acido e facilmente deperibile. Insomma un tipo del quale diffidare.
Fu una riabilitazione lenta la sua, dalla Spagna al sud Italia, e fu solo grazie all'intuizione di Francesco Cirio, piemontese, che lo inscatolò e lo distribuì lungo tutto lo stivale, soprattutto durante la grande guerra, che divenne il simbolo della mediterraneità.


Oggi, e solo oggi, grazie alla bellissima collaborazione tra il Consorzio del Pomodoro di Pachino IGP e l'Associazione Italiana Food Blogger, si festeggia un pomodoro tutto particolare, quello di Pachino e, improvvisamente, la blogsfera si è arricchita del colore e del sapore di un ortaggio che è molto più del simbolo del Mediterraneo, essendo un indiscusso testimonial della Sicilia e della sua ricchissima gastronomia.
Il contest organizzato nella settimana del Calendario del Cibo Italiano tutta dedicata al pomodoro vedrà premiata la ricetta più originale e creativa il cui autore avrà l'opportunità di godere della Sicilia e di scoprire la terra in cui nascono le delizie di Pachino.

La mia ricetta non poteva che prendere l'ispirazione da una terra che amo particolarmente: un dessert, quindi, una sorta di Île flottante, come la Sicilia appunto, preparata con ricotta di pecora dolcificata con estratto di datteri e resa appena croccante da un trito grossolano di arachidi, neutri nel gusto. Il mare che avvolge la candida isola è preparato appunto con il pomodoro, un estratto, arricchito nelle sensazioni gustative, dal rabarbaro, dalla frutta di bosco e dalle marasche, quelle conservate in sciroppo da Luxardo, utilizzato anche per dolcificare, ma senza cedere nello stucchevole, il tutto. 
Infine una delicata cialda ed un severo grue di caco chiudono il piatto e ristorano il palato.


"Rosso Relativo" ovvero Zuppa dolce di ciliegino, rabarbaro e frutti di bosco con quenelle di ricotta di pecora e grue di cacao

Ingredienti (per 4 persone)
Per la zuppa dolce
500 g di pomodoro ciliegino di Pachino Igp
100 g di radice di rabarbaro mondata
120 g tra fragole, ribes, lamponi
20 g tra more e mirtilli
6 ciliegie marasche al frutto Luxardo
20 g di sciroppo di marasche
20 ml di Sangue Morlacco Luxardo

Per la quenelle di ricotta
250 g di ricotta di pecora
20 g di estratto di dattero liquido
20 g di arachide tostata non salata tritata grossolanamente

Per il piatto
Pepe nero lungo, cialda preparata con 1:1 di farina, albume, burro e zucchero modellata su silpat e cotta pochi minuti nel forno statico a 200°, grue di cacao (fava tostata).

Preparazione
Lavare e mondare il pomodoro, la frutta e tagliare a tocchetti il rabarbaro, passarli nell'estrattore: se si desidera avere un effetto più vellutato effettuare l'operazione con l'accessorio per la preparazione degli smoothies. Dolcificare con lo sciroppo e terminare con il sangue morlacco.

In una ciotola mescolare la ricotta passata al setaccio un paio di volte con l'estratto di dattero e la granella di arachidi. Far riposare in frigo.

Lavorare gli ingredienti per la preparazione della cialda, bastano 50 g per ingrediente, inserire il composto in un sac a poche e modellare la forma che si preferisce sopra un tappeto di silpat o un foglio di carta forno e cuocere, senza distrarsi, nel forno già caldo per pochi minuti, fino alla doratura dei contorni. Sfornare immediatamente e far raffreddare.

Comporre il piatto versando a specchio la zuppa dolce, lavorare la ricotta a quenelle e posizionarla al centro, completare con piccoli frutti, posizionare la cialda, profumare con una macinata di pepe nero lungo e decorare con il grue di cacao.




#aifb #calendariodelciboitaliano #atuttopachino


Maccheroni con ragù bianco di agnello e tartufo nero al vino passito per la terza tappa del #girodeiprimi: il Molise e l'ingrediente che non ti aspetti

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Terre bellissime e austere affacciate sul mare e attraversate da rilievi montuosi e verdi pascoli: ecco il Molise, dalla gastronomia semplice e genuina, saldamente legata alla tradizione e poco avvezza ad innovazioni e ricercatezza.
Il Molise è la regione italiana più piccola e giovane, è nata infatti nel 1963, anno in cui si separò dall’Abruzzo. Il territorio è occupato quasi totalmente da monti e colline che limitano lo sviluppo delle colline, anche in prossimità del mare. Nonostante la presenza di rilievi montuosi l’attività agricola è molto sviluppata e diffuse sono le coltivazioni di frumento, mais, tabacco ed olive.

Abitata fin dalla preistoria attorno al V secolo a.C. venne occupata dai Sanniti che opposero una strenua difesa nei confronti dei Romani, inutilmente: venne infatti annessa a Roma din dal III secolo a.C. e alla caduta dell’Impero romano seguirono le dominazioni di Longobardi, Franchi e Normanni. Successivamente il territori del Molise venne dapprima unificato ad una parte della Campania e poi alla Puglia.
Un simile quadro permette di delineare una tradizione gastronomica contraddistinta da una lato da contaminazioni e interscambi con territori limitrofi, dall’altro da periodi di sostanziale immobilità, coincidente con quelli di depressione economico-sociale. Sempre in tema di tradizione culinare, va aggiunto che i legami del Molise con il Regno delle due Sicilie, di cui fu l’unica regione dell’Italia centrale a far parte ingegnare, portarono a un più intenso rapporto con la cucina meridionale.




Forte è la tradizione pastorale - celebrata anche in una poesia da Gabriele D’Annunzio - ancora molto sentita, soprattutto nell’entroterra dove la cucina prevede un largo impiego di carni ovine. Un piatto tipico è l’agnello cacio e uova, una sorta di fricassea insaporita con il formaggio e le budelline di agnello, inoltre,vengono utilizzate per preparare degli involtini farciti con le interiora.
Scamorza e caciocavallo sono formaggi tipici di queste terre mentre la Ventricina possiede i sapori caratteristici della norcineria del Sud Mezzogiorno.

Una carrellata davvero veloce per raccontare un po’ gli ingredienti che ho pensato di utilizzare per valorizzare il Maccherone di Pasta di Canossa, terzo formato del #girodeiprimi, sempre non consueto della tradizione gastronomica molisana. Un formato poco consueto valorizzato anche da un ingrediente molisano che non ti aspetti ovvero il tartufo, che ha trovato nella provincia di Isernia un luogo che ha saputo valorizzato con molteplici e fortunate iniziative.



La scoperta del tartufo in Molise è piuttosto recente e risale ad una ventina di anni fa e in questo brevissimo lasso di tempo è stata scoperta una vera e propria miniera per l’estrazione di diverse specie del prezioso tubero, primo fra tutti il Tartufo bianco pregiato. 
Essendo estate, e seguendo quindi quanto predisposto dalla Natura, ho preferito utilizzare il tartufo estivo o scorzone (Tuber Aestivum Vittadinii), caratterizzato da un colore bruno e dalla superficie esterna ricoperta di verruche piramidali, ha un odore delicato ed aromatico. Cresce in terreni sabbiosi o argillosi, generalmente dei boschi di latifoglie, ma non è raro trovarlo anche nelle pinete. E il periodo di raccolta da dal 1^ maggio al 30 agosto.

Ma come si conserva e come si usa? Ecco qualche piccolo suggerimento:
  • eccezion fatta per il Tartufo Nero Pregiato, è bene usare sempre il tartufo a crudo, o al massimo riscaldandolo, perchè con la cottura perde la consistenza e il profumo;
  • i tartufi non vanno mai sbucciati: la corteccia, aromatica e saporita, va consumata con il resto del tartufo;
  • il tartufo nero ha generalmente un aroma molto delicato che ne consente un uso copioso, mentre quello bianco, dal profumo molto intenso, va utilizzato in dosi decisamente inferiori;
  • dopo la raccolta il tartufo si conserva fresco per un tempo assai limitato: in frigorifero, avvolto in carta assorbente non trattata e chiuso in contenitori ermetici; in ogni caso, quando il tartufo comincia a perdere consistenza e si presenta più morbido e meno compatto, va consumato subito.
Per la terza tappa del contest, #girodeiprimi, organizzato da La Melagrana - Food Creativa Idea, ho quindi voluto giocare con le sensazioni trasmesse da ogni singolo ingrediente così che olfattivamente prima ed al palato poi il piatto restituisse un unicum delicato ma di sicura personalità, nella valorizzazione di uno degli alimenti cardini della dieta mediterranea e ben interpretato da Pasta di Canossa


Maccheroni con ragù bianco di agnello e tartufo nero al vino passito

Ingredienti per 4 persone
280 g di Maccheroni Pasta di Canossa
400 g di polpa di agnello
50 g di sedano
50 g di carota
50 g di cipolla
1 foglia di alloro
1 chiodo di garofano
1 bacca di ginepro
1 piccola stecca di cannella
1 bicchierino di vino passito
1 tartufo nero piccolino
50 g di Caciocavallo Molisano, stagionato di almeno 8 mesi
olio evo delicato, possibilmente del Garda
sale iodato
pepe nero Cubebe, macinato al momento

Preparazione 
Cubettare finemente a carne di agnello.
Tritare gli aromi ed avvolgere in una garzina le spezie.
Grattuggiare quasi impalpabilmente con la microplane il caciocavallo ed ottenere dal tartufo con la mandolina delle fettine sottili, per circa la metà, e tritare la parte restante.
In una casseruola dal fondo pesante far appassire il trito aromatico con un filo d’olio e a tegame coperto per 10’.
Togliere e tenere al caldo e nello stessa casseruola rosolare a fuoco vivace l’agnello per 5’, sfumare con il vino passito, unire le spezie e gli aromi e cuocere per circa 15’-20’, sempre a tegame coperto. Regolare di sale.
Nel frattempo portare a bollore dell’abbondante acqua salata e cuocere per 6’ i maccheroni.
Trasferirli nella casseruola, eliminare la garzina con le spezie, unire il caciocavallo e il tartufo tritato e cuocere per un’altro minuto.

Servire immediatamente con una macinata di pepe nero e con il restante tartufo a lamelle.

Bibliografia:
Slow Food, Presidi, Arca del Gusto e Terra Madre

Il Molise, Corsera
Provincia di Isernia, sito istituzionale.


Con questa ricetta partecipo al contest #girodeiprimi indetto da La Melagrana – Food Creative Idea e Pasta di Canossa  
#lamelagranafood  #pastadicanossa #labuonapasta #lapastachesadipasta

"Scacco matto" pizza al piatto con Petra 9, coulisse di datterini confit, stracciatella, pepe nero lungo e olio alla vaniglia per l'Mtchallenge #58

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Un metronotte, come nel film "Oro di Napoli", che si ferma ad acquistare due pizze fritte, godendo nell'immediato della bellezza mozzafiato di una procace Sofia Loren e di lì a poco della bontà della pizza ancora bollente, ecco come mi sono sentita questo mese.
Un metronotte, con i turni sballati rispetto a quelli del mondo che vive di giorno, con le albe sempre più precoci ed i tramonti che sembrano non arrivare mai. Le giornate incredibilmente lunghe.


Un metronotte, che invece di parcheggiare la bicicletta, parcheggia l'auto, scarica l'attrezzatura, rientra silenziosamente e poi invece di salire le scale, verso l'agognato letto, le scende per entrare nella cucina-laboratorio, accendere la luce, il mac per la musica, la macchinetta del caffè, tra gli appunti dell'esperimento precedente e l'immancabile temperino perché  le matite, mazzi di matite, mi piacciono con la punta sempre affilata e solo con quelle riesco a scrivere la prima parte di una ricetta, con le frecce e le sottolineature a vergare i fogli bianchi, per non perdere neppure un pensiero, un'illuminazione improvvisa, uno scazzo, una delusione, un disegnino "sui bagni del metrò", alla Gianna Nannini.


Questo mese la pizza ovvero la sfida lanciata da Antonietta de "La Trappola Golosa", vincitrice dell'Mtchallenge #57, è stata indubbiamente ostica, a partire dall'impasto a mano, da lavorare per 20'.
Non che non mi piaccia l'utilizzo delle mani, anzi, il mio rapporto con il cibo è molto "carnale" ma dopo una giornata di lavoro "fisico" le braccia non rispondevano come la mente ordinava loro: non riuscivo a dare sempre lo stesso ritmo e non riuscivo ad innamorarmi degli impasti che ottenevo. Mi sentivo messa all'angolo, come se avessi dinnanzi un giocatore di scacchi troppo scaltro.
Poi abbiamo iniziato ad intenderci, complice qualche integratore a base di magnesio, ed è iniziata la sperimentazione delle farine. Antonietta nel suo post magistrale consigliava una farina 0, che non sviluppasse troppa forza e che contenesse max 12,5 g di proteine per chilogrammo.
E ne ho provate davvero moltissime arrivando alla conclusione che le indicazioni di Antonietta erano praticamente il mantra: si ottengono impasti stabili e panetti lisci e setosi che a loro volta ti restituiscono palmi delle mani morbidi e come più forti. 
Ho usato la cella lievitazione per la prima parte del mese, quando il meteo era più instabile, che restituiva impasti più idratati. Successivamente non he ho fatto uso.


Poi è toccato al forno ed ho provato le molteplici variabili che mi hanno offerto la strumentazione casalinga: forno elettrico da 45 cm specifico per la pizza, statico, 400°; forno elettrico da 60 cm combinato 300° con e senza piatto  crispy Emile Henry, specifico per cuocere la pizza; forno elettrico semiprofessionale da 90cm statico 250° con pietra refrattaria. Per scoprire che la stabilità dell'impasto consente di ottenere risultati eccellenti con tutti e tre i forni.


Infine la farcitura: mi sono divertita a combinarne insieme tantissime giocando, come amo fare, sul confine tra il dolce ed il sapido utilizzando, di volta in volta, composta di sambuco, marasche in sciroppo speziato, datterini gialli, verdure estive grigliate e trasformate in mousse con il sifone, ananas grigliato, alga nori essiccata e conservata sotto sale, salicornia, carpaccio e caviale di merluzzo, carne di balena affumicata, feta, stracciatella, mozzarella di bufala campana dop, ancora calda nel suo liquido di conserva, e locale come quella prodotta a pochi chilometri da casa mia, squaquerone e Blu61. 


E tutto questo provare e riprovare mi ha portata lontana nel tempo, come se il mio amico metronotte si fosse perso nei suoi giri notturni. E così mi son trovata fuori tempo massimo. Scacco matto.

Alla fine ho deciso di rendere ugualmente onore ad Antonietta, anche se fuori tempo massimo, semplicemente per ringraziarla di avermi consentito di essere stata a stretto contatto con il cibo così intensamente da esserne uscita spossata, ubriaca di contentezza e di fatica.
In questo, quasi, mese di tentativi notturni un'unica colonna sonora, quella di Dj Food "A recipe for disaster" e qui trovate una piccola selezione, 50 brani, diversissimi tra loro, testimonianza di percorso e consapevolezza effettuati insieme, lui (loro, in realtà) negli anni '90 ed io 25 anni dopo.




Ecco allora la mia pizza che ho deciso di chiamare "Scacco matto", da una frase saggia assai di Asimov: "Nella vita, a differenza degli scacchi, il gioco continua dopo lo scacco matto."Nella vita, e nella cucina, aggiungerei io.

Le ultime due foto ritraggono Maggie, pelosamente paziente ed assaggiatrice, notturna, ufficiale.


"Scacco matto" pizza al piatto con Petra 9, coulisse di datterini confit, stracciatella, pepe nero lungo e olio alla vaniglia

Ingredienti
450 g di Petra 9 (oltre 15 g di proteine, ulteriore esperimento da effettuare smezzata con Petra3)
270 circa ml di acqua Panna 
1 g di lievito di birra
12 g di sale di Maldon alla vaniglia

Ingredienti per la farcia
1 kg di pomodorini datterini
300 g di stracciatella di burrata 
1 bouquet garnì fomato da rosmarino, menta, santoreggia e timo limone
1 presa di sale di Maldon
1 presa di zucchero di canna chiaro
Olio evo del Garda profumato alla vaniglia (con due stecche di vaniglia bourbon lasciate in infusione)
Pepe nero lungo

Preparazione
Ho seguito sempre e pedissequamente quanto indicato da Antonietta che riporto paro-paro.
Misurare l’acqua, versarla in una ciotola, prelevarne una piccola quantità in due tazzine differenti: in una sciogliere il sale, nell’altra il lievito di birra.
Versare il contenuto con il lievito di birra nella ciotola con l’acqua e iniziare ad aggiungere gradualmente e lentamente la farina setacciata a parte, incorporandola man mano all’acqua, poi finita la farina aggiungere il sale sciolto in acqua, continuare ad amalgamare  fino a raggiungere il “punto di pasta”. Il disciplinare dice che questa fase deve durare 10 minuti, a me è durata circa 5/6 minuti (anche a me, dopo due tentativi).
Ribaltare sul piano da lavoro e lavorare 20 minuti. Non sottovalutare questo tempo: è estremamente necessario per ottenere un impasto non appiccicoso, morbido ed elastico e una pizza soffice e asciutta.
Piegare e schiacciare ripetutamente, poi all’avvicinarsi dei 20 minuti l’impasto diventerà morbido e sempre più cedevole e infine avrà un aspetto setoso.
A questo punto riporlo in una ciotola di vetro o porcellana (io bambù), coprire con pellicola e lasciar lievitare per 2 ore.
Procedere alla staglio a mano.  Il disciplinare consiglia di ottenere dei panetti da un peso compreso tra i 180 e 250 g che corrispondono a tre panetti da 30 cm circa di diametro o quattro panetti da 22 cm circa di diametro (io 4 da 185 g)
Riporli su un telo non infarinato, perché essendo un impasto ben incordato, non si attaccherà durante la lievitazione, e lasciar quindi lievitare per altre 4/6 ore a una temperatura di 25°C (come previsto dal disciplinare).
Riscaldare il forno alla massima temperatura (io 300°) insieme alla teglia che servirà per la cottura, senza mai aprire lo sportello. Una volta che i panetti sono lievitati stenderne uno alla volta su un ripiano, stavolta va bene anche il legno (io bambù senza spolvero di farina in quanto non attaccava per niente), spolverato con farina di semola, senza usare il mattarello ma allargandolo con le mani, dal centro verso il bordo e poi, come fanno i pizzaioli veri, facendolo debordare roteandolo, in modo che avvenga un’estensione più delicata.
Durante i tempi di lievitazione cuocere i datterini in forno a 130° per 2h30' con le erbe aromatiche e un filo di olio evo e frullarne 2/3, passando la salsa al colino cinese. Tenere la stracciatella, o la mozzarella di bufala, a temperatura ambiente dal momento in cui inizia la seconda lievitazione.


Accendere il forno statico a 300° dove è stato inserito il piatto crispy e scaldato fino a farlo fumare, prelevarlo, trasferire il disco di pizza condito con un cucchiaio di coulisse di pomodoro, cuocere per 3', sfornare, farcire con la stracciatella di burrata e cuocere  per altri 4'. Servire immediatamente completando la farcitura con i datterini confit interi, una macinata di pepe nero lungo, un filo di olio evo alla vaniglia.
E buon appetito :)



"Pesca in cannolo" ovvero Pacchero croccante con mousse di pesca Saturnia, marasche al frutto e cioccolato Kalapaia per la quarta tappa del #girodeiprimi

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I cibo degli dei e l'eleganza della pesca per la tappa marchigiana, la quarta del #girodeiprimi che vede un folto gruppo di blogger "sfidarsi" a colpi di ricette dove i diversi formati della Pasta di Canossa vengono "vestiti" con gli ingredienti e le tradizioni gastronomiche di alcune regioni italiane.
Tappa marchigiana, quindi, regione ricchissima di eccellenze come la cicerchia di  Serra de’ Conti e le mele rosa dei monti Sibillini, oltre ai consueti insaccati e pecorini e al re dei molluschi, il mosciolo selvatico di Portonovo.
Poi l'incontro la con Pesca di Saturnia®, una delle poche pesche bianche comunemente rintracciabili al mercato anche dalle mie parti che abbia ancora una polpa elegantemente profumata e dalla dolcezza non artefatta.


Contrariamente a quello che si può pensare non è sempre così semplice abbinare ad un formato di pasta un condimento che possa parlare di un'area del nostro paese senza ricalcare abbinamenti, alcuni diventati addirittura famosi nel mondo, che appunto non siano stati già effettuati da altri: pensiamo alle bavette che vedono nell'abbinamento con il pesto un'espressione perfetta oppure l'italianissimo spaghetto al pomodoro che nella semplicità di pochi ingredienti è diventato simbolo di italianità.

La riflessione circa la ricetta è nata proprio da questa constatazione ovvero che un piatto erto a simbolo di una cultura gastronomica ricchissima e complessa come la nostra in realtà è prodotto con ingredienti a loro volta espressione di altre culture, come il pomodoro, o "purpurea meraviglia", per molto tempo adottato come verde pianta ornamentale e che aveva per la teoria degli umori nella sua natura e consistenza alcune qualità che lo rendevano poco appetibile essendo appunto umido, ricco d'acqua, acido e facilmente deperibile.


Pazientemente, partendo dalla Spagna per arrivare al sud Italia, e comunque solo grazie all'intuizione di Francesco Cirio, piemontese, che lo inscatolò e lo distribuì lungo tutto lo stivale, soprattutto durante la grande guerra, divenne il simbolo della mediterraneità.
Il pomodoro come condimento per eccellenza che nel giro di pochissimo tempo modificò tutte le ricette precedenti, che vedevano nell'utilizzo di spezie ed ingredienti dolci la tendenza gastronomica in voga fino al allora.



Ho pensato quindi di giocare con le forme e con il gusto scegliendo proprio la Pesca di Saturnia®, una qualità siciliana, che si coltivava quasi esclusivamente alle pendici dell'Etna, praticamente sconosciuta nel resto d'Italia. E fu solo grazie all'illuminazione di un imprenditore agricolo, Giorgio Eleuteri, che negli anni '80 si innamorò di questo frutto e dopo dieci anni di duro lavoro riuscì a produrlo e commercializzarlo anche nella propria azienda, in provincia di Macerata, tanto da diventarne ambasciatore nel mondo, con l'aiuto dei figli nel frattempo diventati adulti, Laura e Marco, che la pesca tabacchiera è diventata presenza consueta sulle nostre tavole.


La pesca che diventa mousse, la dolcezza più matura della marasca in frutto, prodotta a pochi chilometri da casa mia, e l'incredibile acidità del cioccolato Kalapaia, una qualità che sto testando in questo periodo, un gusto non scontato e dalle mille sfaccettature. Ma ve ne parlerò prossimamente, con altre ricette studiate ad hoc.
E il cannolo che si trasforma e diventa un involucro croccante e neutro nel gusto, che è in grado di valorizzare il mix degli ingredienti che trasformano un "piatto di pasta" in un elegante dessert al piatto estivo, semplice e d'effetto.




"Pesca in cannolo" ovvero Pacchero croccante con mousse di pesca Saturnia, marasche al frutto e cioccolato Kalapaia

Ingredienti per quattro persone
Per il cannolo
3 paccheri per porzione, Pasta di Canossa
sale di Maldon
olio di semi di vinacciolo per friggere

Per la mousse di pesche alla vaniglia
300 ml di panna fresca
200 g di pesche Saturnia®
30 cucchiai di succo d'agave bio
3 cucchiaini di sciroppo di marasche 
1/2 bacello di vaniglia bourbon o tahiti, a gusto

Per il piatto
Marasche al frutto Luxardo
Scaglie di cioccolato Kalapaia 70% Valrhona


Preparazione
Portare a bollore la panna con i semi della mezza bacca di vaniglia, abbattere e far riposare tutta la notte in frigorifero.

Portare a bollore dell'acqua salata, lessare la pasta per 9' scolarla ed abbatterla immediatamente.
Infilare due paccheri in uno stampo per cannoli e friggere fino a doratura in olio di vinacciolo già caldo.
Scolare e far asciugare su carta assorbente.

Sbollentare le pesche per 2', pelarle, eliminare il nocciolo e frullarle con lo sciroppo d'agave e lo sciroppo di marasche. Passare al colino, mescolare con la panna aromatizzata alla vaniglia, trasferire in un sifone da mezzo litro, unire due cariche per panna montata e conservare in frigo per almeno un'ora. Ricordarsi di agitare il sifone prima di ogni utilizzo.

Montare il dolce: spolverare i paccheri con lo zucchero a velo, riempirli con la mousse da entrambi i lati come fosse un cannolo, posizionarli verticalmente, decorare con la ciliegia e grattugiare il cioccolato con la microplane.

Servire immediatamente così che il cannolo non perda di croccantezza e la mousse mantenga la consistenza e la freschezza.



Con questa ricetta partecipo al contest #girodeiprimi indetto da La Melagrana – Food Creative Idea e Pasta di Canossa  

#lamelagranafood  #pastadicanossa #labuonapasta #lapastachesadipasta

Quiche vegetariana di verdure estive: le nuove video ricette!

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Il logorio della vita moderna ci impone ritmi sempre più intensi e mozziconi di tempo da dedicare a quanto più ci piace, come godere di un video di qualche minuto, magari per imparare qualcosa, come una ricetta di cucina, dove le zoomate sui particolari ci possono dare degli spunti per ricette future e fissare trucchi per una riuscita migliore.

Con Pam Panorama, l'azienda per la quale sviluppo la ricettazione web, video e magazine,  e Ciquattro Agency abbiamo deciso di cambiare format alle video ricette (ma questa è una sorpresa, le riprese sono appena finite!) e di girarne anche di very smart ovvero video che non durino più un minuto e mezzo ma che sono in grado di spiegare la ricetta passo passo!

Abbiamo iniziato con una quiche colorata di verdure estive, resa più leggera grazie alla presenza della ricotta fresca e ancora più facile nell'esecuzione grazie all'utilizzo della pasta brisée già pronta. Ma siccome so che siete bravissimi qui troverete anche il link del videotutorial (eh si, abbiamo girato anche quelli!) per prepararla con le proprie mani e in poche mosse.


Buona visione e soprattutto buon appetito!

QUICHE VEGETARIANA DI VERDURE ESTIVE

Portata: antipasto, secondo piatto
Dosi per 6 (8) persone
Difficoltà: minima
Preparazione: 15’
Cottura: 40’
Riposo: si
Forno: si
Kcal: per il piatto 926; per porzione 166 (124,75)
Vino consigliato: Verduzzo Giavi Doc

Ingredienti
1 zucchina
1 cipolla rossa 
1 peperone rosso
1 peperone giallo
1 cucchiaio di pane grattugiato 
2 cucchiai di pecorino romano dop grattugiato 
3 uova bio
250 g di ricotta fresca
1 confezione di pasta brisè 
Olio extravergine d’oliva 100% Italiano
sale iodato 
pepe nero macinato al momento
qualche foglia di basilico fresco per la presentazione e per il piatto

Preparazione
Imburrare ed infarinare uno stampo da 20-22 cm di diametro oppure utilizzare della carta forno, stendere la pasta brisée, cospargerla di pane grattugiato e conservare in frigorifero. 
Accendere il forno a 180°.
Nel frattempo lavare e mondare le verdure, tagliarle prima a julinenne e poi a cubetti (lasciare da parte qualche fettina sottile di cipolla rossa per la decorazione), profumare con una macinata di pepe nero, un pizzico di sale e mescolatele con le mani unendo le foglie di basilico spezzettate con le mani.
In una terrina sbattere le uova con 1 cucchiaio di pecorino, unire la ricotta. Regolare di pepe. Unire le verdure cubettate e mescolare bene.
Cospargere con il pecorino avanzato, la farcia di verdure, livellare la superficie e decorarla la con le fettine di verdure.
Cuocere nel forno statico già caldo fino alla doratura.
Sfornare, far raffreddare e servire con fresca insalata e qualche foglia di basilico fresco.

Quinta tappa del #girodeiprimi, l’#Abruzzo: “Sarebbe piaciuto a Suor Intingola" ovvero Ri-ga-to-ni in minestra di lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, Canestrato di Castel del Monte e miele di Stregonia

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Ho letto in questi giorni un libro che mi tentava da tempo, "La cuoca di d'Annunzio", trovato dopo lunghe ricerche alla stazione di Firenze. Ci sono dei libri che non amo acquistare grazie alla praticità della rete e più sembra difficile entrarne in possesso e più si accende il desiderio di possederli, come se tra le pagine si nascondessero tracce segrete per una caccia al tesoro immaginaria.
Si tratta di un libro scritto a due mani da Maddalena Santeroni e Donatella Miliani che racconta l'intensa amicizia, lunga quasi vent’anni, casta e colma d’amore e di rispetto, tra il Vate, Gabriele d’Annunzio e Albina Becevello, la cuoca del Vittoriale.


Si erano incontrati a Venezia ed era entrata al suo servizio, seguendolo poi nell’ultimo rifugio di Gardone dove rimase - a nutrirlo e coccolarlo - fino alla morte del poeta, avvenuta nel 1938. Albina lasciò allora il Vittoriale e si ritirò a Brescia, nella casa di riposo delle Figlie di San Camillo, dove morì nel 1940, a 58 anni.
Albina Becevello veniva da un paesino del trevigiano, Paese, appunto, da una famiglia di mezzadri che l’aveva adottata all’età di otto anni. Non si sa molto altro di questa donna se non attraverso la lettura  dei centinaia di bigliettini che le inviava il Poeta ad ogni ora del giorno e della notte, sommergendola di richieste, di frasi affettuose, di filastrocche, di complimenti, di promesse.
Entrando in così profonda intimità con Gabriele ed imparando ad amare la sua indole incredibilmente feconda credo che sarebbe suonato stonato ad Albina sentirsi chiamare per nome o “Signorina” o “Cuoca”. Ed infatti i nomignoli furono moltissimi tra cui «Suor Albina», «Suor Intingola», «Santa Cuciniera», una Dea del focolare per un padrone del tutto fuori dall’ordinario che le confezionava piccoli capolavori letterari ad ogni comanda, come poco prima di un incontro amoroso: “Cara Albina, più tardi avrò una donna bianca sopra un lino azzurro. Le donne bianche dopo gli esercizi difficili, hanno fame. Ti prego di preparare alla Mariona un piatto freddo col polpettone magistrale... La settimana prossima cominceranno i lavori per la Cucina. Avrai una Cucina di marmo e un trono di fuoco». 


Ed infatti la cucina del Vittoriale è un luogo dove sicuramente si lavorava bene: comodo, arredato con gusto, dotato di moderni elettrodomestici, come la ghiacciaia, e di strumenti antichi di cucina, come quello per confezionare gli spaghetti alla chitarra che lui definiva “la chitarra dei maccheroni è una specie di arpa cuciniera a sezione rettangolare e che si suona cole mani in piano orizzontale. Il sistema è monocorde perché le note sono di uguale tono e vibrano facendo cadere tra corda e corda quel caratteristico tipo di pasta ben conosciuta da chi apprezza questo ramo della musica applicata alla gastronomia.”


D’Annunzio alternava momenti di profonda e depressa inappetenza a momenti di morbosa golosità, soprattutto per il cioccolato ed i bon bon che non dovevano mancare mai, e pur non amando la pasta, ritenuta anche da Marinetti e dai Futuristi un piatto che avrebbe condotto l’uomo alla mollezza d’intenti, fiaccandone il corpo, adorava i Cannelloni, una passione smisurata, come si evince dallo scritto che pretende “Molto Cara Albina, mi duole darti un gran dolore. Ma io ho una improvvisa passione per i Can-nel-lo-ni. Bisogna che tu abbia cannelloni pronti in ogni ora del giorno e della notte. Cannelloni! Cannelloni! Gabriel”

Ed ogni piatto ben riuscito scatenava emozioni in versi: «Dilettissima Suor Albina, tu avevi superato tutti i grandi cuochi moderni. Con la perfezione del pollo di Beauvais tu hai superato i più famosi cuochi antichi. Ieri, entrando in me, quel pollo ridiventava angelo, spiegava le ali e si metteva a cantare le tue lodi: Laudate, Ventriculi, Sanctam Albinam, coquam excelsam!». 

D’Annunzio nei suoi incredibili bigliettini si firmava “Il Priore indegno”, “Il Priore in tentazione”, “Il Priore in peccato di gola”, “Il Priore scomunicato” o “Il Frate Gentile” e spesso si scusava con Suor Albina per le nottate spese a prendersi cura di lui e delle sue ospiti, pregandola di riposarsi o di prendersi qualche giorno di ferie. 
La bellezza del loro rapporto, la stima ed il rispetto reciproci, si possono leggere anche in questa filastrocca«A Suor Albina/ che fa la galantina/ e fa la gelatina/ e fa la patatina/ e fa la minestrina/ e il petto d’Agatina, / tutto alla Buccarina,/ con l’arte sua divina!». L’aveva scritta nel 1923, alla vigilia della ricorrenza della Beffa di Buccari.


Mi sono immaginata quindi, ispirata dalla piacevole lettura, di accendere la macchina del tempo e di portare con me una cesta di vimini colma dei tesori che la regione, che ha dato i natali a Gabriele, ha saputo negli anni preservare e trasformare poi nei Presidi Slow Food. Ne ho utilizzati ben quattro per la quinta tappa del #girodeiprimi, dedicata all’Abruzzo e ad un formato di pasta, il Rigatone, che ho subito declinato in Ri-ga-to-ni! Ri-ga-to-ni!, confezionando una ricetta povera a prima vista, con le Lenticchie, il Canestrato e l’aglio di Sulmona, ma nell'insieme resa preziosissima, e ispirata ai colori del Vittoriale, con la morbida presenza del pomodorino confit e con la dolcezza discreta del miele di Stregonia, come è stata la presenza di Albina nella vita del Vate. 

 

“Sarebbe piaciuto a Suor Intingola" ovvero Ri-ga-to-ni in minestra di lenticchia di Santo Stefano di Sessanio, Canestrato di Castel del Monte e miele di Stregonia.

Ingredienti per quattro persone
280 g di Rigatoni Pasta di Canossa
1000 g di pomodorini datterini 
un bouquet garnì (basilico, maggiorana, rosmarino, alloro, santoreggia, salvia, ecc)
2 cucchiai di zucchero di canna
500 g di lenticchie di Santo Stefano di Sassanio
2 spicchi d’aglio rosso di Sulmona
sale di Maldon
brodo vegetale
Olio extravergine d’oliva Abruzzo Dop
pepe nero cubebe di mulinello

Per il piatto
30 g di Canestrato di Castel del Monte
Miele di Stregonia
qualche ago di rosmarino fresco

Preparazione
Accendere il forno a 130° e cuocere i pomodorini lavati e distribuiti sopra una teglia, coperta con carta forno, per 2h30’ con le erbe aromatiche, sale, olio evo, una presa di zucchero e una macinata di pepe. Sfornare, frullare i 2/3 dei pomodorini e passare la salsa al colino cinese.
In una casseruola in ghisa o dal fondo pesante dorare gli spicchi d’aglio in camicia con un filo d’olio, unire le lenticchie sciacquate sotto l’acqua fredda, far insaporire per qualche minuto, e coprire con circa 500 ml di brodo vegetale mescolato a 200 g di salsa di datterini, portare a bollore, abbassare il fuoco, coprire e cuocere per circa 25’-30: le lenticchie devono cuocere ma non devono perdere la loro compostezza e devono mantenere un aspetto un po’ brodoso. Regolare di sale.
Lessare la pasta in abbondante acqua salata per 7’, scolare e risottare i rigatoni con le lenticchie per 2’-3’.
Servire immediatamente con le scaglie di pecorino, qualche datterino confit, qualche ago di rosmarino e qualche goccia di miele. Si termina con un’abbondante macinata di pepe.


Bibliografia
La cuoca di d'Annunzio, Maddalena Santeroni, Donatella Milano
La grande cucina regionale, Abruzzo e Molise
Le immagini che fanno riferimento al Vittoriale ed agli scritti di d'Annunzio sono tratte dal web

Con questa ricetta partecipo al contest #girodeiprimi indetto da La Melagrana – Food Creative Idea e Pasta di Canossa  

#lamelagranafood  #pastadicanossa #labuonapasta #lapastachesadipasta

Il cibo di strada, Aifb, la Confraternita per non parlar del gnocco fritto

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Si è appena conclusa la Settimana del cibo di strada che Aifb ha voluto festeggiare mettendosi non solo ai fornelli ma anche in strada e raccontando con dovizia di particolari i natali, e anche le pasque, di un cibo che, come recita il Manifesto del Cibo di Strada, oltre ad essere buono ed economico, deve portare felicità
Mica un compito da poco! 
Per questo vi invito, se ancora non l'avete fatto, di recarvi testè nel sito di Aifb dove parla del Calendario del cibo, di mettervi comodi e di dedicare parte di una vostra giornata alla lettura di quanto è stato raccontato sul cibo di strada ed immediatamente verrete trasportati in quei vicoli e in quelle calli che le nostre città, grandi e piccole che siano, custodiscono ancora con amore e con lo stesso amore sanno restituire un po' di passato incartato nella carta paglia di un gustoso presente.

Scrivo questo post per ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a rendere così unico un "cibo" che, come purtroppo spesso accade, travolto com'è dagli inglesismi, rischia di venirne anche stravolto e snaturato. 
Perché, vedete, il cibo di strada non è street food, non è il gastrofighettismo che per un fine settimana diventa ruspante, non è la riscoperta di antichi sapori né la valorizzazione di riti e ritmi antichi. Il cibo di strada è stato e fortunatamente continua ad essere tutto ciò, senza la necessità di creargli tanti eventi attorno.
Ripeto, se volete davvero ri-scoprire, perché nel frattempo tutto l'ambaradam della "cucina dei senza" vi ha un po' confuso le idee, tuffatevi nei post scritti da associati che hanno il dono di avere ancora mani curiose e papille gustative da appagare, che si sono cimentati in post a quattro mani pur vivendo a centinaia di chilometri di distanza, che hanno intervistato chi quotidianamente offre cibo di strada e tanta felicità, che si sono cimentati nella preparazione di piatti non propriamente consueti, che ci hanno regalato degli street food tour (eh, si qui ho ceduto anch'io all'inglesismo!) da seguire ad occhi chiusi.



Mentre raccoglievo documenti per scrivere l'articolo introduttivo della settimana del cibo di strada mi sono resa conto che non avrei mai potuto riportare una sola ricetta, tormentata com'ero da un dubbio amletico: quale?! Impossibile decidere, anche limitandosi ad una sola regione, ad una sola provincia oppure ad una sola tipologia di proposta gastronomica.
Ho quindi deciso di parlare di un libro che sua volta parla di un cibo, così da non far torto a nessuno.
E' un libro che ho letteralmente bevuto in una notte ricco com'e' di aneddoti, racconti, introduzioni, battute, fotografie e testimonianze: sto parlando della "Confraternita del Gnocco d'Oro" di Luca Bonacini con le foto di Luigi Ottani. E' un libro fortemente voluto da Comune, Provincia e Camera di Commercio di Modena, con i contributi dei Consorzi delle eccellenze modenesi (Prosciutto di Modena, Lambrusi Modenesi Aceto Balsamico Tradizionale e Parmigiano Reggiano) e con un comitato scientifico di tutto rispetto. 
Il libro, uscito nel 2011, riportata specifici percorsi, Modena Centro Storico, l'Anello delle Mura, verso il Reggiano, tra Tiepido e Panaro, verso il Secchia, Collina e Montagna, e le "Gnoccososte"ovvero tutti i locali che nel modenese offrono IL gnocco fritto, con quell'articolo irreverente che pare già un biglietto da visita che non da' adito a dubbi.

Un cibo senza formalità e senza posate, ma certamente non maleducato, offerto dalle mani e dai sorrisi dei proprietari dei locali, fin dalle 6.30 del mattino, perché il gnocco fritto si mangia al mattino con il caffellatte ma anche più tardi con un buon bicchiere di Lambrusco ed accompagnato da un vassoio di salumi, come racconta Roberto Barbolini. "Mia mamma s'alzava presto e faceva sempre colazione al bar con una o due fette di gnocco fritto pucciate nel cappuccino. Poi, verso le dieci e mezza del mattino, diceva che sentiva un po' di debolezza. "Colpa del metabolismo", garantiva. E faceva il bis. Il bar in questione era lo storico Embassy di via Bellinzona.



E' un libro che guida il lettore nelle nebbie invernali e nei campeggi estivi lungo i fiumi, che riporta i ricordi di Ligabue e di Bottura, che accompagnava le notti di giovani rivoluzionari e le domeniche pomeriggio in famiglia e che racconta un cibo semplice, povero (acqua, farina, sale e strutto per friggere e alle volte anche il lievito) che mette d'accordo tutti, ma proprio tutti, compresa la squadra di rugbisti sudafricani,"una dozzina di energumeni con il medico della nazionale e qualche dirigente che rinunciò ad un visita privata a Maranello pur di mangiare chili di gnocco fritto, chili di mortadella, salame, ciccioli, prosciutto, litri di lambrusco. Come mai avevo visto fare in vita mia".

L'ultima pagina, con caratteri piccoli e discreti, si legge: Questa parte di albero, dopo aver subito un severo controllo, per conto dell'editore è stata dichiarata "non contaminata da radiazioni." E' diventata quindi libro, sotto i torchi di Edizioni Artestampa di Modena nel mese di febbraio 2011. Possa un giorno, dopo aver ceduto agli uomini il suo carico di conoscenza, ritornare alla terra e diventare un nuovo albero.

Ho quindi trascritto la ricetta della tradizione (alla fine del libro ne sono riportate decine in quanto la tradizione è un'invenzione ben riuscita :) e mi sono messa ai fornelli, per condividere con voi non solo la bontà ma anche la bellezza del cibo di strada. 
Un modo tangibile per ringraziarvi.
Grazie, davvero e, visto che ci siete, venite a darmi una mano in cucina che siamo in tanti e il gnocco finisce subito!



IL GNOCCO FRITTO


(RICETTA BASE DI MARIA BOZZALI E BRUNA BIANCHI - NONANTOLA)
SAVOR - Edizioni Artestampa 2010


Dosi: per 4 persone
Preparazione: 20’
Riposo: 30'-45'
Cottura: qualche minuto
Difficoltà: media



Ingredienti
500 g di farina 0
1 cucchiaio di sale (io un cucchiaino)
1 cucchiaino di strutto
un pochino di latte
1/2 bicchiere di acqua (io gassata così ho ridotto a pochi grammi la presenza del lievito)
un poco di lievito di birra
strutto per friggere

Preparazione
"Prepariamo sulla spianatoia tutti gli ingredienti: il latte, il sale fino, lo strutto ed un pochino di lievito di birra sciolto in poca acqua tiepida. Si versa tutta la farina in una montagnola, facendo un buco al centro nel quale si mette il sale, lo strutto, il latte e il lievito di birra sciolto. Adesso si utilizza il lievito di birra: una volta, invece, quanto si impastava il pane in casa si teneva indietro un po' di impasto che serviva per preparare lo gnocco con il lievito naturale. Si chiama alvdor: si formava un palla, si faceva un croce sopra e si metteva dentro la dispensa.
Si procede ad impastare gli ingredienti, usando se si vuole la forchetta, meglio ancora le mani, Se l'impasto è troppo asciutto si può aggiungere ancora del latte. Non troppo però perchè non deve risultare eccessivamente tenero. Quindi si lavora finché non diventa liscio ed elastico.
Quando l'impasto è pronto, con il matterello si stende una sfoglia larga che poi si taglierà a rombi, con il coltello. Lo spessore deve essere di circa mezzo centimetro, non troppo sottile perchè altrimenti si secca.
Si appoggiano i lembi di pasta su un vassoio ricoperto da un canovaccio di cotone e si lasciano riposare. Devono essere ben distanziati l'uno dall'altro, perchè lievitando aumentano di volume. E' importante coprire il vassoio con un altro canovaccio, oppure con un figlio di carta. L'impasto deve rimanere a riposo per almeno 30'-40', a temperatura ambiente e lontano da correnti d'aria.
Quando è trascorso il tempo di lievitazione si comincia a preparare per la cottura. Si usa in genere una pentola abbastanza profonda dove si fa sciogliere a calore vivace lo strutto. Quando il grasso è bollente si tuffano i pezzetti di gnocco, che dovranno gonfiarsi come palloncini. Si lasciano rosolare per qualche minuto, da una parte e dall'altra, quindi si scolano con un mestolo forato e si mettono ad asciugare sulla carta da fritti.
Di solito lo gnocco fritto si mangia con gli affettati, con un buon piatto di prosciutto, con i formaggi, i ciccioli, la coppa. Si può anche mangiare da solo oppure abbinato a una buona marmellata piccante."



Bibliografia
La Confraternita del Gnocco d'Oro, Luca Bonacini
SAVOR - Ricordi, ricette e filmati per tramandare la cultura delle rezdore modenesi
C'erano una volta Cibi di Strada, Carlo G. Valli
Gli antichi sapori dei mangiari di strada, Carlo G. Valli
La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, Pellegrino Artusi

"Il cioccolato è la materia di cui sono fatti i sogni". E anche le torte con Kalapaia e ciliegini confit alla fava tonka

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Il cacao è una pianta tanto quanto la melanzana e la cipolla, che i Maya coltivavano già nel 1000 a.c.: la consideravano un cibo sacro da offrire agli dei. 
Per i Maya la cioccolata doveva essere calda, in contrasto con la versione Azteca degustata fredda, e berne una tazza rappresentava simbolo di ricchezza e ospitalità, oltre che uno dei piaceri della vita
L’aromatizzare la bevanda con ingredienti diversi, come peperoncino, vaniglia o magnolia, aveva un significato preciso; altrettanto importante era che il composto risultasse schiumoso e perciò era scosso con apposito bastoncino. Per gli indios i chicchi di cacao erano sia un simbolo centrale nei riti di prosperità, battesimo o matrimonio, sia una medicina magica capace di guarire ogni malattia della mente e del corpo (es. eritemi, diarrea o mal di stomaco). Anche il sistema monetario era basato sulle fave di cacao e le fonti tramandano tabelle di riferimento: un seme valeva l'equivalente di quattro pannocchie di mais, tre semi servivano per comprare una zucca o un uovo di tacchino, e che con cento si poteva entrare in possesso di una canoa o di un mantello in cotone o lana. Le bevande ottenute con il cacao potevano essere diverse, classificate in base alla qualità dei semi e degli ingredienti associati. Famosa era la “pasol”, cacao abbinato al mais, che confezionata in forma di palline avvolte in foglie di banana diventava alimento corroborante di facile trasporto, da consumarsi dopo l'immersione in acqua calda. Un ristoro veloce e liofilizzato; della serie: non abbiamo inventato nulla.


Ma siccome le cose belle di solito durano poco nel bel mezzo della festa arrivarono i conquistadores spagnoli; scoprirono il cacao e grazie anche ai religiosi botanici compresero subito le qualità nutrienti ed energetiche tanto da proseguirono quindi la coltivazione e la portarono anche in Spagna. Siamo nel ‘500 e il cacao arriva in Europa. 
Diaz de Castillo, al seguito di Cortés, nel testo la Conquista del Messico (1517-1521) segnala che l'imperatore Montezuma II durante il pasto reale beveva più di cinquanta tazze d'oro contenenti un liquido fatto con il cacao
All'inizio la bevanda non riscosse molto successo, poi alla corte di Spagna, affascinati dalla singolare mistura esotica, cercarono di adeguarla al proprio gusto. Così, verso l’inizio del ‘600 una versione "ingentilita" della cioccolata diventò di moda. La ricetta aveva un sapore dolce, non più amaro piccante, ed era ottenuta aggiungendo al cacao zucchero, scorze di frutta ed aromi vari (spesso cannella e vaniglia).
Per tutto il ‘600 detrattori ed estimatori del cacao si dettero battaglia a colpi di tazza! I primi ritenevano l'alimento dannoso alla salute perché risvegliava ira, agitazione, lussuria e lasciava un abbondante residuo terroso sul fondo delle tazze.
Gli estimatori invece, tra cui gli alti prelati della chiesa che lo assumevano come bevanda anche nei giorni di digiuno, affermavano trattarsi di un vero farmaco ricostituente, antidepressivo, capace di rendere vigili e favorire gli sforzi. 
Fino al '700 inoltrato comunque era decisamente sconsigliato, se non addirittura proibito, consentire il consumo del "brodo degli indiani" (altro nome della cioccolata in tazza) alle suore di clausura...chissà cosa avrebbero combinato sotto gli influssi della bevanda goduriosa. Per fortuna oggi l'attenzione si è spostata sui social e ci si limita a consigliare l'uso moderato di Facebook.


Ma il colpo di scena avvenne nel 1828 quanto l'olandese Van Houten aprì una nuova frontiera nel settore del cioccolato brevettando il metodo per separare efficacemente dai semi del cacao la polvere e il burro: la tavoletta divenne take away e si apprestò a conquistare il mondo ben conservata in zaini e borse, come già avevano fatto gli Indios qualche migliaio di anni prima.

La ricetta di oggi è un democratico equilibrio fra le acidità del pomodoro e quella del Grand Cru de Terroir Kalapaia 70%un prodotto decisamente particolare.
Scoperto nella Papua Nuova Guinea dai ricercatoriValrhona, giunti nella East New Britain, isola del Pacifico caratterizzata da un mix ideale per la coltivazione del cacao grazie ai terreni vulcanici, al clima caldo e umido e alle foreste ancora incontaminate.
Si tratta di un cioccolato fondente dalla gamma aromatica sorprendente: poco dolce, quasi estivo e che alla masticazione vi offrirà note acide iniziali che vireranno prima verso la frutta matura e successivamente verso il caratteristico gusto del grue di cacao, la fava tostata, un amaro elegante.
Si tratta di un prodotto di eccellenza selezionato da Selecta, azienda che ho iniziato a conoscere grazie alla loro selezione di formaggi, della cui professionalità non finirò mai di stupirmi.


Torta al cioccolato e pomodorini confit alla fava Tonka

Dosi: per 6-8 persone
Preparazione: 40’ più il riposo
Cottura: 2 h totali (tra pomodorini, pasta sucrèe e ganasce, da effettuare anche in tempi diversi)
Difficoltà: media

Ingredienti per la pasta sucrèe
250 g di Petra 5 o un'ottima 00
80 g di burro chiarificato a dadini (oppure 100 g di ottimo burro)
100 g di zucchero a velo setacciato un paio di volte
2 uova bio a temperatura ambiente

Ingredienti per la ganasce di cioccolato
250 ml di panna fresca
200 g di cioccolato Kalapaia
50 g di ottimo burro salato a tocchetti ed a temperatura ambiente
25 g di miele di acacia Mieli Thun: serve un miele delicato che non stravolga le note olfattive del cioccolato (non avevo più glucosio, in alternativa è la scelta più adeguata)

Ingredienti per i ciliegini confit
500 g di pomodorino ciliegino pachino igp non troppo grandi (ma visto che ci siete lavoratene il doppio o anche il triplo, tanto il forno cuoce da solo e per qualche giorno avrete la scorta per preparare insalate, paste, passate)
due prese di zucchero di canna, meglio il Muscovado
un'abbondante gratuggiata di fava Tonka
un filo di olio di semi di vinacciolo (l'olio serve come mezzo per trasferire gli aromi dello zucchero e della spezia ai pomodorini)

Preparazione dei pomodori
Lavate i pomodori, lasciatene 1/3 intero attaccato ai rametti per la decorazione,   tagliateli a metà, distribuiteli sopra una teglia coperta da carta forno, spolverate lo zucchero e la fava tonka grattugiata generosamente, un filo d'olio e cuocete nel forno statico già caldo a 140°per 1h30', circa, dipende dal vostro forno: non devono seccare troppo.

Preparazione della pasta sucrèe
Setacciate lo zucchero a velo per un paio di volte e poi ripetere l'operazione assieme alla farina: non resteranno grumi controproducenti e la farina prenderà un po' di aria.
Disponete la polvere a fontana sopra una spianatoia o dentro una ciotola, unite il burro morbido a tocchetti ed iniziate ad impastare e successivamente le uova, una alla volta. Lavorate la pasta fino ad ottenere un panetto: pesatene 250 g che lascerete riposare in frigo, coperto da pellicola, per almeno due ore. Altrimenti basterà un'ora in abbattitore positivo. La pasta restante potete utilizzarla per un'altra torta oppure congelarla o abbatterla in negativo e conservarla fino a tre mesi.
Stendere la pasta con un matterello e rivestite un anello o una tortiera da 20 cm di diametro (imburrata ed infarinata) oppure una quadrata appena un po' più piccola, forate la superficie con i rebbi di una forchetta, coprite con carta forno e tutta la superficie con perle di ceramica o legumi secchi per la cottura in bianco: 20' nel forno statico già caldo a 190°, eliminate carta e pesi e fate dorare a 180° per 10'. Per ottenere una base più composta e meno soggetta alle rottura in cottura o durante il taglio il consiglio è di far riposare la pasta in forma sulla tortiera in frigo, o in abbattitore, per 20', così da stabilizzarla. 

Preparazione della ganasce
Portate ad ebollizione la panna e lontano dal fuoco sciogliete, mescolando con un cucchiaio, il cioccolato. Continuate con una frusta unendo gli ingredienti restanti ovvero il burro salato ed infine il miele (o glucosio). Mettete da parte.

Preparazione del dolce
Stendete sulla superficie della torta, coprendola completamente, i ciliegini confit con la base tagliata verso il basso, ricoprite con la ganasce e conservate in frigo fino al momento del servizio: tagliate le fette con un coltello affilato passato nell'acqua calda e poi asciugato, così da non sciupare la superficie della ganasce, ripulendolo ad ogni fetta, e decorate con i ciliegini nel ramo spolverati di zucchero a velo e una granella di pistacchi sbollentati, sbucciati e tritati al coltello.
Sarebbe piaciuta anche a Montezuma :)


Concludo con un consiglio di Isabel Allende, tratto dal suo libro Afrodita, del 1998 circa la ganasce che eventualmente potreste avanzare: "Non c'è niente di più afrodisiaco di una mousse al cioccolato spalmata sulla pelle, ma fa in modo che la pelle sia la tua, perché se spennelli di mousse il partner, poi ti toccherà leccarla ed è ad altissimo potenziale calorico." Che la prova costume non può attendere.

L'Orange Wine di Joško Gravner e il menù di Massimiliano Alajmo

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Skin Contact: Development of an Orange Tasteè il titolo scelto per il documentario sugli “orange wines”, i vini bianchi sottoposti a macerazione sulle bucce,  presentato, in anteprima nazionale, al Ristorante La Montecchia di Selvazzano (Padova) dopo la première a Londra dello scorso 19 aprile.


Trenta minuti, firmati da Laura Michelon e Mike Hopkins e prodotti da Bottled Films, che raccontano come nascono gli “orange wines” attraverso, vera storia nella storia, l’esperienza  del produttore di Oslavia Joško Gravner, uno dei principali protagonisti del progetto.
Il racconto parte  proprio da quando, nel 1997, Gravner inizia a lavorare su un nuovo modo di fare vino, producendo un vino bianco lasciato a fermentare assieme alle bucce per un lungo periodo di tempo e che, proprio in virtù di tale lavorazione, acquisisce il caratteristico colore ambrato, quasi arancione. Una scelta che nel 2001 evolve nella vinificazione in anfora quando, dopo un viaggio in Georgia, Joško sceglie la modalità classica del Caucaso, quella della zona dei Kakheti, che prevede appunto grandi anfore in terracotta interrate.


Un ritorno al passato, per certi versi, ma anche un forte balzo nel futuro, tant'è che da quel giorno molti lo seguono nella sua idea di riportare il vino al suo significato originario, di prodotto fatto con l’uva e solo con questa. Come Angiolino Maule e Daniele Piccin, assieme a Gravner nel film, legati a Joško da una sorta di filo rosso che attraversa le regioni e le generazioni.
Il trailer è visibile all'indirizzo http://bottledfilms.com/. Il film è disponibile sullo stesso sito al costo di 5 euro e può essere acquistato con sottotitoli in inglese o in italiano (Cliccare qui per visualizzare il trailer).


Ma veniamo alla serata. 
Il Ristorante La Montecchia,affacciato sul mare verde dell’omonimo Golf Club e gestito dalla Famiglia Alajmo, non ha bisogno di presentazioni. 
Il menù, creato per l’occasione da   Massimiliano Alajmo -  intervenuto poi in sala per salutare, come sua consuetudine, gli ospiti – è stato, se così si può dire,  uno spettacolo nello spettacolo….  Del resto, avrebbe potuto essere altrimenti?

Nelle foto che seguono, alcuni dei piatti presentati ed i vini dei tre produttori abbinati:

In salotto

Ravanelli all'aceto balsamico con crema di semi di sesamo ed erbette
Cannolo con crema di carote al curry e coriandolo
Cuscinetto di barbabietola
Pjzza vegetariana (con tartara vegetale)
Cotoletta di scamorza
Rosa frizzante 2014 (Piccinin)




A tavola

Orto extravergine di oliva
Bianco Montemagro 2014 (Piccinin)


Risotto di zucchine, curry nero e crema di carote
Pico 2011 (Maule)


Tortelli di cipolla al fumo e cenere
Ribolla 2007 (Gravner)


Barbabietola travestita da “petto di piccione” con radicchi amari
Rosso Breg 2004 (Gravner) 


Gioco di frutta
Pan(e)tone Josko (da spezzare in centrotavola)

Recioto 2002 (Maule)


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